Schiavi o paperoni in erba? (Parte 3)
Un piano d’azione tattico per retribuire gli studenti-atleti NCAA si scontra con molti paletti, ma non è impossibile
Prima di giungere alla fine del nostro percorso, è necessario fare conoscenza con il boss finale: l’Higher Education Amendments del 1972, meglio noto come Title IX. Questo stabilisce che è illegale discriminare in base al sesso in ogni attività finanziata del tutto o in parte dai soldi dei contribuenti (il che include anche le università private, oltre a quelle pubbliche). L’emendamento ha avuto un impatto positivo in quanto a parificazione dei sessi e ha portato ad un innalzamento del numero di giovani donne che all’università hanno potuto praticare sport. D’altro canto, questa legge – specie per l’interpretazione di un particolare sintagma che parla di retribuzione “substantially proportionate” – pone un freno sulla retribuzione degli studenti-atleti. Infatti, qualora l’NCAA desse il via libera alla loro retribuzione, sia uomini che donne dovrebbero beneficiarne alla pari. In altre parole, tutti gli studenti-atleti di ambo i sessi di tutti gli sport di tutti i college. L’idea è nobile, ma si scontra con realtà come quelle dei college americani minori. Immaginiamo allora la situazione di un college di D-II che deve retribuire per intero i 400 atleti di un corpo studentesco impegnati in diverse discipline sportive. Pagando ognuno di essi per 12 mesi l’anno la cifra quasi simbolica di $200 mensili, si arriverebbe ad un totale di $960.000 annui. Se tale università rientra fra il 90% degli atenei in perdita nel settore sportivo, come far rientrare nel budget quasi un ulteriore milione di dollari in uscita? In ogni caso, tutto ciò suona pericolosamente simile ad un concetto di redistribuzione della ricchezza caro al socialismo, parola che fa ancora drizzare i peli sul coppino di moltissimi americani. Sotto questo punto di vista, gli studenti-atleti “minori” verrebbero però ricompensati ben al di là dei propri meriti e al pari di quelli più bravi e famosi. Da dove prendere questi fondi per rientrare delle perdite? Forse le tasse scolastiche di tutti gli studenti subirebbero un’impennata senza precedenti. Oppure verrebbero tagliati i fondi (se non del tutto eliminati) proprio agli sport minori. Risultato? Qualche soldino in più, ma meno qualità nelle strutture, nel migliore dei casi. Nel peggiore, borsa di studio revocata. Così non funziona.
Piano B. Immaginiamo un regolamento che stipuli la retribuzione solo agli studenti-atleti degli sport che generano introiti – ovvero football e basket. Tuttavia, nasce subito un ulteriore dubbio. I giocatori vanno pagati tutti la stessa cifra o si introducono stipendi più alti per i giocatori migliori, un po’ come in qualsiasi lega professionistica? Pagare tutti indistintamente vorrebbe dire riconoscere che l’impatto sportivo oltre che monetario del QB vincitore dell’ultimo Heisman Trophy è identico a quello del 121° giocatore del roster. D’altro canto pagare proporzionalmente più denaro a chi merita merita maggiormente vorrebbe dire scatenare un’asta al rialzo fra i maggiori atenei, quelli cioè già competitivi e già in grado di spendere denaro extra. L’immediato effetto collaterale sarebbe questo taglierebbe fuori senza mezzi termini i programmi di piccole, ma ambiziose scuole. Senza contare che le aste avrebbero come merce ragazzi di 17-18 anni freschi freschi di high school. Da un giorno all’altro questi si vedrebbero recapitare cifre esorbitanti senza avere in gran parte dei casi la capacità e le conoscenze per gestire un simile patrimonio. Se vi sembrava schiavitù lo sfruttare le abilità atletiche dei giocatori, come vedete il fatto di comprarli letteralmente dalle proprie famiglie durante il liceo? Non benissimo.
Stabilire un piano d’azione praticabile sembra più impegnativo di quanto la morale faccia sembrare. Se paghi tutti, non ci sono soldi. Se paghi chi porta introiti, svaluti le università minori. Se paghi solo gli atleti di punta, commetti una discriminazione sessista. Non facilissimo. Nel nostro piccolo, proponiamo tre idee, nessuna delle quali esclude l’altra. Anzi, sarebbero più efficaci se implementate insieme. Una prima fattispecie che la NCAA dovrebbe pensare di eliminare è il veto alle sponsorizzazioni. Ciò aprirebbe alle aziende private la possibilità di pagare uno studente-atleta una tantum o stipendiarlo mensilmente, a seconda delle esigenze. Riesce facile pensare che brand come Gatorade, Nike o Apple si getterebbero verso questa nuova opportunità di mercato. Questo libererebbe le università da obblighi morali ed economici, e magari porterebbe gli atleti a performare meglio per cercare un proprio sponsor, se non addirittura a restare al college più a lungo, migliorando di conseguenza le proprie abilità senza l’assillo di diventare pro in fretta e furia per prendersi cura della propria famiglia. Un’altra misura tutt’altro che impensabile sarebbe premiare con una sorta di “premio partita” prestabilito. A beneficiarne sarebbero i membri delle squadre che si aggiudicano i tornei NCAA di fine anno in sport secondari come pallavolo, vela e atletica.
Per far sì che ciò sia possibile, l’NCAA stessa dovrebbe contribuire ai premi nel caso di università vincitrici che da sole non possono sostenere i costi. E i soldini l’NCAA li sta già mettendo da parte: ricordate i milioni messi via per situazioni straordinarie? Voilà. Ultimo, servirebbe uno sforzo da un altro privato, la EA o magari la 2K, per produrre una nuova serie annuale di videogiochi di college basketball o football. La EA ne ha fermato la produzione nel 2013, a causa di una controversia legale che dopo tre anni l’ha condannata a pagare a migliaia di atleti parte di una class action. Secondo ESPN, la NCAA non si è mostrata favorevole a supportare un ritorno del videogioco in futuro, in primis perché dovrebbe rinunciare ad una corposa fetta di introiti da destinare ai giocatori. Ma se insieme con le università, che pure vantano diritti di immagine, la NCAA decidesse di rinunciare o diminuire le proprie richieste monetarie, gli studenti-atleti si troverebbero in tasca un assegno di qualche migliaia di euro a testa in base ad un accordo di licenza stabilito collettivamente o caso per caso. Si tratta di tre gocce nel mare, perché in molti casi significherebbe giusto rendere l’1% dei (futuri) ricchi ancora più ricco ed ignorare il famoso 99% di quelli che non ce la fanno. Ma è pur sempre dell’America che stiamo parlando. Se è legittimo il sommo valore dato da questo paese alla meritocrazia, il fatto che chi si distingua venga premiato dovrebbe mettere a posto molte coscienze ed evitare che si continui a parlare di moderna schiavitù.
MVProf