This is IT
La storia dell’incredibile caduta in disgrazia di Isaiah Thomas
A tutti piacciono le storie a lieto fine, quelle dal disneyano “… e vissero per sempre felici e contenti.” Non è un caso che notoriamente i sequel godano di minor successo rispetto agli originali: perché andare a stiracchiare ulteriormente l’arco narrativo di una storia già perfetta così? Ancora meglio se si tratta della storia di un underdog, il protagonista un po’ sfigato che alla fine esce vincitore contro ogni pronostico. Ecco, se la carriera di Isaiah Thomas fosse un film, queste sarebbero le linee guida della sua storia e le luci in sala si sarebbero dovute accendere a maggio 2017. Tutti avremmo applaudito e lasciato la sala con la certezza di aver visto forse non il miglior film di sempre, ma di certo qualcosa di non banale. Come la maggior parte delle pellicole, anche questa segue la canonica struttura in tre atti – almeno inizialmente.
Atto primo – introduzione
Già il nome del nostro eroe sembra un espediente letterario. Papà James, fan sfegatato dei Los Angeles Lakers, scommette con un amico che i giallo-viola concederanno il repeat anche nelle Finals 1989. Ne è così sicuro da mettere in palio il nome del figlio ancora in grembo a sua moglie con una scommessa: in caso di sconfitta, dovrà chiamare il nascituro Isiah, come il leader dei Bad Boys Pistons, grandi rivali dei suoi Lakers. Che di cognome, neanche farlo apposta, fa anche lui Thomas. Prima ancora che proprio Detroit liquidasse i Lakers 4-0 quello stesso giugno, il piccolo era già nato e dopotutto al padre quel nome non dispiaceva affatto. Una sola obiezione da parte della madre. Lo spelling del nome doveva essere fedele a quello della Bibbia, quindi con l’aggiunta di una A. Nasce così Isaiah Thomas.
Atto secondo – scontro
La palla a spicchi diventa una passione anche per il quasi omonimo Isaiah, con solo un piccolo intoppo. All’apice della sua crescita misura 5’9″ (175cm) on a good day, come dicono gli americani per parlare di una misurazione generosa. Questo non ferma IT, capace di arrivare in NBA nel 2011 dopo tre anni a Washington. Ci arriva letteralmente con l’ultimo treno utile, quello della chiamata #60 che ferma alla stazione centrale di Sacramento. Against all odds, canterebbe Phil Collins come colonna sonora. Ora come allora, i Kings sono un ricettacolo di casi umani più unici che rari, ma il giovane Isaiah si ritaglia in fretta il suo ruolo di play con generose quantità di punti nelle mani. Dopo il passaggio-lampo a Phoenix, finisce ai Boston Celtics. Qui gioca il miglior basket della sua carriera sotto coach Stevens, abile nel nasconderlo in difesa ed esaltarlo in attacco. IT diventa l’idolo del TD Garden e si scopre uno dei giocatori più clutch della lega nel 4° quarto, meritandosi il soprannome di King in the Fourth. Il 2017 è l’anno della consacrazione in cui finisce 3° fra i marcatori con quasi 29 punti di media e 5° nella votazione per l’MVP. Siccome però non è una storia come le altre, il secondo atto presenta un secondo momento di crisi. Il 15 aprile la sorella Chyna muore in un incidente stradale vicino a Tacoma, nello stato di Washington. In altre parole, a più di tremila miglia da Boston. La notizia lo distrugge.
Atto terzo – risoluzione
Il giorno dopo i Celtics avrebbero fatto il loro debutto stagionale ai playoff, forti di quel seed #1 che portava con sé grosse aspettative. IT ci pensa su il giusto e decide di scendere in campo a dispetto del dolore che lo attanaglia. Per lui è forse l’unico modo che conosce per affrontare il lutto, ma nel fare questo aggrava un preesistente problema all’anca. Thomas però stringe i denti. È commovente nel modo in cui ribalta i Bulls dallo 0-2, segna 53 punti contro Washington e si presenta sostanzialmente su una gamba sola alle finali ad est contro i Cavs. Gara 2 è una Caporetto non solo per la squadra, ma anche per lui. Aggrava l’infortunio e finisce KO per il resto dei playoff. La sua è un’onorevole uscita di scena sul proprio scudo come un eroe antico. Finale agrodolce, sì, ma che flirta con l’epica sportiva. Rieccoci allora a quel maggio 2017 da cui avevamo iniziato. Titoli di coda? Non proprio.
La storia anzi prosegue e lo fa in maniera spietata. Le aspettative di vedersi recapitare un Brinks truck, il classico camion portavalori, pieno dei dollaroni di un max contract vengono azzerate. Ai già consueti dubbi su difesa e taglia XS si uniscono quelli su un infortunio che già da subito appare debilitante. Il GM Danny Ainge prende due piccioni con una fava spedendo Thomas a Cleveland in cambio di Kyrie Irving. I problemi all’anca sono molto seri, tanto che Cleveland potrebbe rinegoziare in toto la trade o addirittura annullarla, ma si accontenta di una seconda scelta come modesto palliativo. Thomas resta in riabilitazione fino a gennaio 2018, e i Cavs si attaccano al suo ritorno per raddrizzare una stagione fin lì deludente. Come dice Harvey Dent ne Il Cavaliere Oscuro, “O muori da eroe, o vivi tanto a lungo da diventare il cattivo.” Il ritorno al basket giocato di IT causa più danni di quanti ne vada a sanare. Sul parquet spacca il gioco di squadra già poco fluido con tiri forzati e in più divide lo spogliatoio accusando i compagni di scarso impegno.
La sua carriera in Ohio dura appena 15 partite, prima di venire mandato ai Lakers, la squadra di papà James. Tuttavia, nemmeno a Hollywood le cose migliorano e dopo neanche due mesi si ferma di nuovo a causa dell’anca, operata in artroscopia. Con la stagione 2017-18 finisce anche il suo contratto, che i Lakers si vedono bene dal rinnovare, specie dopo l’arrivo di LeBron. Lo stesso giocatore che un anno prima era un candidato MVP con un’intera città sulle spalle si ritrova a elemosinare un qualunque tipo di contratto per tutta l’estate. L’unica squadra che trova in un’intesa con Thomas sono i Denver Nuggets, che diventano la sua quarta squadra in meno di 365 giorni. Loro il Brinks truck lo avevano sì portato, ma per il rinnovo di Nikola Jokic. Per Thomas al massimo cercano gli spicci in tasca, ovvero il minimo salariale da 1 anno a $2M. In altri termini, almeno $100M in meno rispetto alle speranze iniziali. Una mazzata per chiunque, ma che lui tenterà di tramutare in una nuova motivazione da superare con quello slow grind che lo porta a lottare contro tutti, tutto e pure contro se stesso. Non lasciate la sala, non ancora almeno. La storia del piccolo grande Isaiah non è ancora finita.
MVProf