Schiavi o paperoni in erba? (Parte 1)
Facciamo un po’ più di chiarezza sull’NCAA: com’è strutturata, come opera e il giro di affari che genera
Da anni ormai tiene banco la spinosa questione dell’NCAA e della sua particolare” gestione dei giocatori, che a molti appare immorale. Questo ci dà uno spunto interessante per trattare questo tema e svilupparlo in dettaglio. Nel presente articolo diviso in tre parti, faremo in primo luogo un po’ più di chiarezza sull’NCAA, illustrando com’è strutturata, come opera e quant’è efficace. Nel secondo articolo saranno trattati i pro e i contro del pagare emolumenti ai giocatori di college. In ultimo, tenteremo di trovare una soluzione a questa annosa questione che da anni tiene in scacco milioni di famiglie, istituzioni e sponsor. Partiamo dalle basi. La sigla NCAA è un acronimo che sta per National Collegiate Athletic Association, associazione no-profit che raccoglie, regola e organizza i programmi sportivi di 1281 fra università, college e altri tipi di istituti americani e canadesi, e più di 460mila studenti-atleti (termine tecnico con cui avremo molto a che fare). L’NCAA al suo interno è divisa in un sistema di division e di conference. Della Division I fanno parte le università più grandi e con maggiore tradizione sportiva, come gli UCLA Bruins e gli Alabama Crimson Tide. Gli atenei della Division II sono invece di dimensioni minori e stesso dicasi per quelli di Division III. All’interno di queste tre division ci sono rispettivamente 11, 25 e 45 conference in base alla suddivisione geografica dell’immenso territorio americano. ACC, SEC, Big Ten, Pac 12 e Big 12 formano le “Power Five,” le cinque conference più ricche di talento e di denaro del paese. L’essenza no-profit dell’NCAA comporta che la quasi totalità dei soldi generati annualmente venga poi ridistribuita alle scuole. Quasi, appunto. Secondo l’Huffington Post, nell’anno fiscale 2014 l’NCAA ha generato $989M di ricavi a fronte di $909M di spese. I circa$80M di surplus non sono stati un ricavo in senso stretto, ma sono andati a rimpolpare una parte delle casse dell’NCAA. Tale denaro residuo funge da paracadute in caso di situazioni straordinarie, come gravi infortuni agli studenti-atleti. È il caso delCatastrophic Insurance Plan, un programma che tutela in automatico tutti coloro i quali subiscono infortuni i cui costi superino i $90,000.
La gallina dalle uova d’oro dell’NCAA è il torneo maschile di basket, che ha la sua apoteosi nell’annuale March Madness. Da solo, il torneo genera fra l’80% e il 90% dei guadagni annuali dell’NCAA, che pure potenzialmente può contare su entrate derivanti da 54 diversi sport fra squadre maschili, femminili e miste. Motivo principale di questa disparità gargantuesca è il contrattone di 14 anni firmato nel 2010 fra NCAA e i network televisivi CBS e TNT, che per la cifra monstre di $10.8 miliardi si sono assicurati la possibilità di trasmettere le partite del torneo di basket in tv e in streaming. Nel 2016 le parti hanno addirittura firmato un’estensione di ulteriori 8 anni fino al 2032 da $8.8 miliardi, di fatto arrivando a valutare la manifestazione più di un miliardo all’anno. Parliamo di numeri secondi solo al Super Bowl, e superiori alle NBA Finals e alle World Series di baseball. Ora, considerati questi numeri, andrebbe calcolato il totale degli stipendi degli studenti-atleti che rendono il torneo NCAA una tale miniera d’oro. Zero, niente di niente, nemmeno un soldo bucato. Sì, avete letto bene. Nessuno di essi, come anche per quanto riguarda gli altri sport, vede nemmeno l’ombra di un verdone derivante dai propri contributi atletici. La principale motivazione addotta è che in molti casi ad essi viene offerta come compensazione una scholarship, una borsa di studio che copre le tasse universitarie nella loro interezza o anche solo parzialmente. Questa è la più grande ipocrisia che fa da pietra angolare del sistema collegiale USA. Se la qualità degli studi fosse davvero una motivazione nella scelta dell’alma mater, allora le università di Ivy League come Harvard e Yale avrebbero non solo le scuole più prestigiose, ma anche le squadre più forti del paese. È invece sotto gli occhi di tutti che a reclutare selvaggiamente questi ragazzi fin dall’high school siano università di grande tradizione sportiva, le quali raramente portano avanti di pari passo una grande tradizione accademica. Un esempio basterà a dirimere la questione. Per il 2015 il College Football Playoff ranking ha inserito Clemson, Alabama, Michigan State e Oklahoma come le quattro migliori squadre dell’anno. Sempre per il 2015, US News ha stilato la sua annuale lista dei college americani, il cui giudizio però è basato su parametri accademici. Le stesse quattro università appena citate erano rispettivamente al #67, #110, #81 e #97 del ranking.
Considerato però che pochissimi studenti-atleti passano poi al professionismo, le nozioni imparate sui banchi di scuola sono una risorsa più preziosa di quanto molti giovani non realizzino in un primo momento. Tuttavia, entrare in un college puntando tutto sulle abilità atletiche e quindi penalizzando quelle mentali è l’unica via d’accesso per molti di loro. Diversamente, non avrebbero modo di permettersi i costi delle esose rette delle migliori università. Per di più, negli USA passare dal college è la strada migliore per giungere al professionismo. A differenza di quanto accade in Europa, non esiste un alveare di squadre giovanili in orbita ai principali club della massima serie né alcuna affiliazione diretta fra un particolare college e una squadra pro. Lamaniera in cui questi “amatori” accedono al livello successivo è attraverso un processo di selezione chiamato draft. Una volta all’anno, prima dell’inizio della stagione regolare, le squadre professionistiche utilizzano scout e osservatori per scegliere i migliori giovani prospetti da mettere sotto contratto. Il draft è strutturato in modo che, peggiore è stata l’annata di una determinata squadra, prima questa ha diritto ha rinforzarsi con talenti in grado di riportarla a competere per il titolo. Ciò fa sì che, idealmente, ogni team viva ciclicamente periodi di vacche magre e altri di vacche grasse. Ogni sport ha contingenze specifiche in materia di draft. Per esempio, attualmente per entrare in NBA bisogna aver finito il liceo almeno da un anno. La maggior parte dei giocatori di basket va al college, mentre altri scelgono di giocare per un anno oltreoceano, dove però la copertura mediatica è molto inferiore. Invece, per entrare in NFL servono almeno tre anni: vista l’assenza del gioco del football da altre parti del mondo, la totalità degli atleti con ambizioni passa dal college. Mosca bianca è stata la meteora Jarryd Hayne, che giocò per un anno coi San Francisco 49ers pur avendo un background unicamente rugbistico. Ora che abbiamo più chiare le dinamiche strutturali, veniamo al punto cruciale: pagare o non pagare gli studenti-atleti?
MVProf