Russell Westbrook non è il vostro MVP
Russell Westbrook ha vissuto una stagione 2016-17 stellare, ma una serie di ragioni dicono chiaramente che non merita di essere incoronato MVP più di James Harden
MVP! MVP! MVP! Così canta spesso e volentieri il pubblico dei palazzetti NBA al proprio beniamino, ma solo a pochi eletti è concesso di diventarlo davvero. Il titolo di MVP (Most Valuable Player) dell’NBA premia il giocatore di maggior valore della singola annata di stagione regolare. Quella parola (la V di Valuable) è però più insidiosa da definire di quanto non sembri. Nonostante possa apparire una possibilità valida, il premio non va a incoronare il giocatore più forte della lega. Fosse per quello, il vincitore sarebbe sempre e comunque King James – non servirebbe sottolinearlo, ma una statistica fra poco chiarirà ulteriormente il perché. A vincere, invece, è colui il quale ha messo insieme il “miglior pacchetto” da novembre ad aprile all’interno di una singola stagione. Ma in cosa consiste questo pacchetto? In ordine sparso: statistiche personali, partite giocate, record del proprio team e facoltà di impattare positivamente sull’esito di una partita. Solitamente, tutto questo si riassume nel cosiddetto eye test: ciò che vedono si vede a occhio nudo è probabilmente una valida summa dei punti espressi sopra. Ad esempio, Steph Curry è stato facilmente identificabile come l’MVP delle ultime due stagioni, di cui una all’unanimità, così come l’anno prima Kevin Durant, e LeBron James nei due precedenti.
Tuttavia, quest’anno le cose si sono fatte più difficili da valutare solo con gli occhi, poiché uno dei giocatori in lizza per il premio è al centro di un clamoroso fuoco incrociato: Russell Westbrook. Esiste al contempo un pool di sfidanti a Westbrook, una ristretta élite di superstar come James Harden, LeBron James, Kawhi Leonard e Steph Curry. Per ciascuna di queste quattro superstar si potrebbero costruire altrettanti articoli ad hoc per promulgare la loro candidatura. In nome della sintesi, basterà citare che non meritano il premio LBJ (troppe gare saltate per chi ad ogni modo non necessita altri trofei che non siano da infilare al dito), Leonard (l’ottima stagione post-Duncan ha dimostrato ancora che il sistema-Spurs conta molto più dei singoli interpreti) e Curry (stagione solida, ma inferiore alle cifre delle ultime due annate). Poiché l’esito finale della sfida sembra destinato ad essere deciso da una manciata di voti, proviamo a vedere punto per punto perché non è giusto che Westbrook ottenga il prestigioso riconoscimento. Se invece Harden valga o meno il titolo sarà l’asterisco che accompagnerà questa disamina attraverso fatta di argomenti pro e contro Russ.
Il record di triple-doppie, primo punto da analizzare, è certamente il gioiello più brillante sulla corona di Westbrook. Il fatto che sia stato in grado di mettere insieme 42 triple-doppie in 82 partite (79 in totale in carriera) e rompere il record di Oscar Robertson che resisteva dal 1961-62 e che si credeva irraggiungibile è un traguardo clamoroso. Le cifre di Brodie (32 punti, 11 rimbalzi e 10 assist) sono certamente figlie dell’addio di KD dello scorso luglio, che necessariamente ha creato un buco statistico enorme, considerato che da solo provvedeva a fornire giornalmente alla causa di OKC 28-8r-5a. Al tempo stesso, è sorprendente come Westbrook abbia quasi annullato il potenziale inverno nucleare causato dall’addio del secondo miglior giocatore di basket del pianeta. Infatti il record degli Oklahoma City Thunder di quest’anno (47-35) è di appena 8 partite inferiore a quello dell’anno scorso (55-27). In confronto, la partenza di LeBron dall’Ohio nel 2010 ha causato ai Cleveland Cavaliers un’oscillazione di 42 sconfitte in più tra un anno e l’altro (e questo spiega perché il best player resti lui, anche senza premio specifico a suggellare la cosa). Vale poi la pena notare come OKC sia uscita vincitrice in 33 partite sulle 42 chiuse da RW in tripla-doppia, segno che trattasi di statistiche personali con dividendi anche di squadra.
Sembra incredibile che solo nel 2013 Lance Stephenson guidasse l’intera lega dall’alto delle sue 5 triple-doppie stagionali e che quell’anno l’insieme dei giocatori NBA accumulò 46 triple doppie totali, sostanzialmente la stessa cifra messa insieme da Brodie quest’anno. Oltre all’effetto collaterale di far passare in secondo piano le 22 triple-doppie personali di Harden stesso, ciò pone un interrogativo: come mai una voce statistica che fino a ieri era così poco considerata ora è per molti la chiave per indirizzare il premio di MVP? Va menzionato che molti dei rimbalzi di Westbrook vengono da liberi sbagliati degli avversari, segno che, mentre i lunghi nel pitturato si limitano al box-out, Westbrook va a far suoi palloni che normalmente non dovrebbero essere preda del play della squadra. Inoltre, Westbrook ha dimostrato la tendenza a lasciare spesso e volentieri un maggiore cuscinetto fra sé e il proprio avversario, con lo scopo di avere un passo di vantaggio nell’inseguimento del possibile rimbalzo difensivo. Eppure mai prima d’ora ci si era appassionati tanto al numero di rimbalzi catturati da un playmaker. Questo dà adito a chi sostiene che Westbrook abbia sostanzialmente chiesto agli altri di farsi da parte e manipolato le sue statistiche, pompandole oltremodo. In un certo senso, OKC vince non grazie alle sue triple-doppie, ma nonostante ad esse: in un contesto vincente di squadra come è stata OKC negli ultimi anni, tali enormi cifre individuali avrebbero diminuito – non aumentato – le chance di competere per l’intera squadra e per questo sono state soppresse dall’alto (immaginiamo KD e coach Brooks). Westbrook non è cambiato rispetto a prima, ora ha semplicemente carta bianca di far ciò che vuole. E siccome è quasi ogni sera il più forte sul parquet, contestualmente permette ai suoi di vincere partite. Ah, su 22 serate in tripla-doppia del Barba i Rockets hanno vinto 17 partite, percentuale di vittorie ben più alta rispetto allo sfidante.
Fra i rimproveri spesso mossi al giocatore #0 (e negli anni sono stati non pochi), c’è stata spesso la sua incapacità di chiudere i giochi in una partita punto a punto. Fino a marzo 2016, Westbrook era 5 su 38 (di cui 3 su 26) in tiri per vincere/pareggiare presi con 10″ sul cronometro di 4° quarto o overtime (fonte ESPN). Da tallone d’Achille questo si è convertito in uno dei maggiori pregi del giocatore nell’ultimo anno. Ecco un breve e non esaustivo resoconto delle gesta di Westbrook in crunch time. Il 5 febbraio ha messo a referto 19 degli ultimi 22 punti di OKC per sconfiggere Portland 105-99. Il 28 febbraio ha segnato contro Utah 11 punti degli ultimi 13 dei suoi, compreso un decisivo and-1 per la vittoria 109-106. Il 2 marzo ha segnato tutti e 15 gli ultimi punti dei suoi per battere Memphis 114-102. Il 27 marzo, sul -13 con 3:30 da giocare contro Dallas, ha resuscitato i Thunder e segnato il jumper della vittoria per 92-91. Due sere dopo, il 29 marzo ha riportato OKC a contatto dal -10 e pareggiato con un tiro una gara vinta in overtime 114-106 contro i Magic. Infine, la sera della sua storica 42° tripla-doppia stagionale, ha realizzato una tripla impossibile per battere Denver sulla sirena 106-105. A fronte di un usage rate che nei finali del 4° quarto schizza ad un ridicolo 62.3, OKC negli ultimi 5′ di gara segna 21.7 punti su 100 possessi più degli avversari, cifra che sostanzialmente dovrebbe andare a collidere con un usage così elevato. A Russ va dato il merito di aver annichilito pure queste statistiche.
Ma il motivo per cui KD ha spostato il proprio domicilio nel nord della California non era la scarsa precisione di Westbrook, quanto la tendenza dell’ex compagno di squadra di monopolizzare il gioco, rallentare il ritmo offensivo e prendersi molti tiri fuori ritmo. Anche in questo, Russ non è affatto cambiato. Nel 2016-17, Westbrook ha tirato in totale dal campo 1941 volte col 42.5% di media. In altre parole, ha sbagliato 1117 tiri e ne ha presi più di 400 più del secondo in graduatoria (Harden con 1533 al 44%), il tutto con quella che è la peggior percentuale realizzativa dal suo secondo anno nella lega. Prima di lui, il record del maggior numero di tiri tentati apparteneva a Wilt Chamberlain con 1597, record che è resistito dal 1961-62 al 2005-06, quando Kobe Bryant lo pareggiò e poi lo sorpassò in quasi ogni altra stagione della carriera. A differenza di Brodie, però, il Mamba non ha mai tirato meno del 45% pur lasciando partire dai polpastrelli un numero di palloni molto simile; quattro di quelle annate da 1500+ tiri, furono poi coronate da anelli (1510 al 46% nel 2000-01, 1597 al 47% nel 2001-02, 1712 al 46% nel 2008-09 e 1569 al 47% nel 2009-10). Questo dovrebbe dare fiducia ai fan dei Thunder. Nonostante Kobe sia sempre stato un mangia-palloni, un solista e uno con cui pochi sceglievano di entrare in squadra, all’interno di un sistema vincente come il triangle offense di Phil Jackson ha trovato la consacrazione, e in un misura minore, anche una seconda reincarnazione del Mamba come Harden ha svoltato l’angolo col giusto sistema quest’anno. Difficile dire se e come Billy Donovan possa ripetere il miracolo, ma la speranza che un giorno possa accadere esiste. Di sicuro c’è solo che fin qui dargli le redini del gioco non ha portato dividendi per la squadra.
Russ è un giocatore unico, cestisticamente uno dei top 10 in NBA e atleticamente forse il migliore in assoluto, ma quella V torna ora a reclamare giustizia. Una V per Vendetta, ma soprattutto per Valuable. Il value di Westbrook non è di certo quello di rendere migliore il valore quello dei suoi compagni di squadra. Infatti, le cifre statistiche degli altri Thunder sono molto simili a quelle dell’ultimo anno di KD. Nella sua interezza, tolto Durant, il roster è migliorato rispetto a prima, grazie alle addizioni di Oladipo, Sabonis e McDermott, rimasti però inceppati. E se un giocatore come Adams che sembrava pronto ad esplodere si è invece trovato con le polveri bagnate, il play della squadra non può che essere il primo imputato. Peggio ancora, non solo i suoi compagni non migliorano, ma negli anni a fiorire sono stati soprattutto i giocatori che hanno lasciato l’ingombrante ombra del #0. KD coi Golden State Warriors ha vissuto un’annata efficiente sotto ogni aspetto, Serge Ibaka è rinato coi Toronto Raptors dopo un progressivo declino a OKC, Dion Waiters ha trascinato i Miami Heat dal baratro dell’11-30 fino alle soglie dei playoff, Reggie Jackson ha espressamente chiesto una trade per potersi esprimere al meglio e, in origine, Harden – sempre presente, non a caso – da sesto uomo è diventato leader degli Houston Rockets e candidato MVP. Allora perché non dare direttamente il premio al Barba, visti i tanti punti interrogativi che circondano l’asso di OKC?
Harden ha chiuso la stagione con 29-8r-7a, cifre molto vicine – ma inferiori – a Westbrook, benché le 5.7 palle perse abbassano di molto il rapporto tra assist e perse. Paradossalmente, due sono le grosse ancore che frenano Harden. In primis, il sistema di gioco di coach Mike D’Antoni. Il Baffo è noto nei circoli NBA per proporre un gioco da Seven Seconds or Less dall’alto tasso di triple, corsa e porosità difensiva. In questo senso, un maggior numero di possessi e in maggiore velocità ha consentito ad Harden di mettere insieme cifre a sua volta più alte dell’anno scorso, dopo che già in passato il sistema aveva creato aberrazioni statistiche in giocatori assai mediocri. Sì, in precedenza questo era stato menzionato come un valore aggiunto a quello di Harden, ma si sa che giocare all’interno di sistemi già rodati non favorisce la candidatura a premi dei singoli. Si vedano ad esempio i San Antonio Spurs, 18 stagioni in fila da 50+ vittorie, 5 titoli, ma un solo MVP (Tim Duncan). Inoltre, il supporting cast di Houston è cucito a perfezione sul sistema-D’Antoni e la riprova è che l’Offensive Rating dei Razzi cala appena di 7 punti senza Harden in campo ed è comunque migliore di quello di OKC con Westbrook presente sul parquet (fonte Washington Post). Quando invece lo stesso Russ si siede a riposare, il rating dei suoi crolla di 10.5, arrivando a 97.4, cifra fra le più basse degli ultimi anni. Benché si sia già esposto l’argomento secondo cui Westbrook non sia in grado di valorizzare chi gli sta attorno, è altrettanto vero che con Anderson, Ariza, Gordon e Williams la vita del Barba è più semplice. A squadre invertite Westbrook non vincerebbe per forza di più, ma contesto tecnico e compagni di squadra impattano di molto la percezione – forse ancor prima della prestazione – delle rispettive superstar. E proprio per l’eccellenza di coach e compagni, il premio per il miglior allenatore e miglior sesto uomo paiono già sulla via di Houston: difficile allora pensare anche ad Harden MVP, visto che nemmeno ai Warriors delle 73 vittorie riuscì la tripletta (Curry, Kerr, ma non Iguodala).
In conclusione, è bene sottolineare una cosa. In un’annata che prima ancora che iniziasse era già stata etichettata come una pressoché inutile fase di transizione verso l’atto terzo della sfida fra Warriors e Cavs alle Finals, Westbrook ha senza dubbio avuto il merito di aggiungere un gradito sub-plot. Mai nella storia recente l’incoronazione di un MVP era stata tanto a lungo dibattuta e controversa (eccezion fatta, ma solo in parte, per il secondo MVP a Steve Nash nel 2006). Non esistono precedenti di un giocatore che potesse mettere insieme le fenomenali cifre di Westbrook, ma è anche vero che mai dal 1983 vince l’MVP il giocatore di una squadra con meno di 50 vittorie e senza una remota chance di conquista del titolo (sono dati 1000/1 a Vegas). A fronte di tanti pregi e difetti eviscerati sopra, Russell Westbrook non può essere il vostro MVP. La giusta chiamata da fare il 26 giugno sul palco degli NBA Awards Show è quella di nominare James Harden MVP, nonostante la sua stessa candidatura presenti alcune crepe. Non è però detto che ciò accada. Ancor meno probabile, ma di certo affascinante, è l’idea del co-MVP. Sarebbe un interessante modo di inaugurare la prima assoluta della cerimonia con la nomina dei primi co-MVP in assoluto. Ma se è vero che gli americani non credono di essere i migliori in qualcosa se qualcun altro è al loro stesso livello, pur dovendoci tutti togliere il cappello davanti alla stagione di Wesbrook, per le ragioni esposte sopra, la stagione del Barba ha il value necessario per essere insignita del premio di MVP.
MVProf