MJ vs LBJ: un dibattito infinito
Cerchiamo di mettere in ordine gli elementi del importante dibattito sportivo dell’ultimo decennio
Ci sono domande che l’umanità intera si pone da tempo immemore, come ad esempio quale sia il senso della vita. Poi ce ne sono altre senza senso, come se vada più forte il treno o sia più buona la cioccolata. Infine ce ne sono altre ancora che la logica può spiegare, ma che si fa fatica a razionalizzare, come se pesi più un chilo di piume o un chilo di ferro. Al centro di questo triangolo delle Bermuda si trova una domanda che è al tempo stesso atavica, insensata e piena di dati scientificamente misurabili: chi è il miglior cestista di tutti i tempi, Michael Jordan o LeBron James? La domanda consuma da anni le gole di tutti gli opinionisti sportivi di tutto il mondo e di recente il tema è tornato d’attualità più che mai. In Gara 5 delle Eastern Conference Finals di quest’anno contro i Boston Celtics LBJ ha scavalcato Jordan come migliore marcatore di sempre ai playoff. Si trattava del 29° punto della gara e il numero 5989 della sua carriera ai playoff, arrivato con una canestro da tre punti. Il record era in vigore da 19 anni, quando Jordan scavalcò il precedente detentore, Kareem Abdul-Jabbar. Nella conferenza stampa del dopo partita LeBron aveva molto di cui gioire: non solo per il suo record personale, ma anche per l’accesso dei suoi Cleveland Cavaliers alle Finals, che quest’anno si annunciavano storiche sotto molti aspetti.
Per LeBron si è trattato del 7° viaggio consecutivo alle finali, una in meno solo delle 8 di Bill Russell, che negli anni ’60 monopolizzò un’NBA comunque incomparabile ad oggi sotto troppi aspetti. In tempi moderni, le superstar che gli si avvicinano di più sono Magic, Bird, Jabbar e Wade, fermi a 4 di fila. Visto l’andamento delle squadre a destra del fiume Mississippi, l’anno prossimo dovrebbe avvenire il clamoroso doppiaggio di LBJ ai danni di questi ultimi. Per dare un’idea ad ancor più ampio respiro di cosa significhi il suo dominio assoluto sulla lega, basti pensare che LeBron è stato protagonista di 8 finali nel decennio 2007-2017 e che in virtù di ciò da solo ha accumulato più finali di 25 altre franchigie NBA. Insomma, più che un uomo-franchigia, LBJ è una franchigia-uomo. Non un brutto modo di far fronte alle aspettative enormi di chi, liceale di appena 17 anni, veniva sbattuto sulla copertina di Sports Illustrated col pesante marchio di “Il Prescelto.” E allora, se anche solo scalfire la punta dell’iceberg dei record della carriera di LeBron dovrebbe bastare a dare una dimensione assoluta di lui come giocatore, perché ancora tanti dubbi e riserve persistono? La risposta è facile: perché prima di lui, ha fatto la sua apparizione sulla terra Michael Jeffrey Jordan.
Nel discorso post-partita di LeBron per celebrare la sua investitura a nuovo scoring leader dei playoff è facile leggere nelle parole ispirate di King James cosa voglia dire per lui avere a che fare col fantasma di Jordan da una vita, prima da tifoso e poi da pretendente al trono:
“When you’re growing up and you’re seeing Michael Jordan, it’s almost like a god […] I did pretty much everything that MJ did when I was a kid. I shot fadeaways before I should have. I wore a leg sleeve on my leg and folded it down so you saw the red part. I wore black-and-red shoes with white socks. I wore short shorts so you could see my undershorts underneath. I didn’t go bald like Mike, but I’m getting there.“
Si dice che l’imitazione sia la forma più alta di ammirazione. Ma pur imitandolo esteriormente, ci sono particolari non indifferenti che a Jordan non è riuscito ad imitare alla perfezione. Jordan ha partecipato a 6 finali NBA in carriera, vincendole tutte e portando a casa ogni volta il titolo di MVP delle Finals. Se nel biennio ’93-’94 MJ non si fosse allontanato dalle scene, complice la tragica scomparsa del padre, viene da chiedersi a quante finali avrebbe partecipato e quanti anelli in più avrebbe messo alle dita. Inoltre, ciò che separa Jordan da James è l’istinto da killer, quel suo modo di imporre la propria volontà nei finali di partita e di prendersi il tiro decisivo. Uno di questi, denominato semplicemente The Shot, permise ai suoi Chicago Bulls di avanzare alle finali del 1989 e un altro, il suo ultimo in maglia Bulls, gli permise di centrare il sesto anello. Due tiri, presi tra molti altri momenti passati alla storia, che esemplificano Jordan e il suo motto: “Nella mia vita ho sbagliato più di 9000 tiri, ho perso quasi 300 partite, 26 volte i miei compagni mi hanno affidato il tiro decisivo e l’ho sbagliato. Ho fallito molte volte. Ed è per questo che alla fine ho vinto tutto.”
Tuttavia, sarebbe al limite del revisionista non considerare anche certe macchie nel curriculum di MJ. In primis, il fatto che dal momento in cui venne scelto terzo al draft del 1984 dovettero passare sei stagioni piene prima che, alla settima, MJ centrasse il primo titolo NBA (pur con di mezzo un oro olimpico). Inoltre, mentre molti criticano la scarsa qualità dell’est odierno, andrebbe rispolverate le memorie dei Bulls dell’85 che centrarono i playoff con un record di 30-52 o questa copertina di Sports Illustrated del marzo 1997, che anche allora andava interrogandosi sui reali valori della lega, non del tutto eccellenti come ora a molti piace raccontare. In aggiunta, è più che possibile leggere il suo primo ritiro non solo come un “what if,” ma anche come un vantaggio. Infatti, riposare per quasi due anni interi calcando i diamanti della Minor League statunitense ha senza dubbio consentito a Jordan di curare gli acciacchi e ripresentarsi nel 1995 in piena forma. Ultima postilla, i primi Bulls post-ritiro finirono la stagione 55-27, appena due gare in meno dell’anno del three-peat.
Per ripetere la medesima operazione e cercare falle nella carriera di LeBron non serve certo il lanternino. Egli vinse il primo anello solo al terzo tentativo, dopo ben 8 anni di siccità totale. Nel mezzo, prima uno sweep dai San Antonio Spurs nel 2007 e poi nel 2011 contro i Dallas Mavericks il più grosso choke job di una superstar nella storia delle Finals, nei numeri e nell’atteggiamento. L’anno dopo fu la volta buona, ma il come e il dove sono altresì materia di infiniti dibattiti. Dopo un’ennesima postseason deludente coi Cavs, LeBron annunciò al mondo la sua volontà di lasciare Cleveland nella controversa trasmissione tv denominata “The Decision.” La scelta lasciò totalmente scornato il mondo Cavs, all’oscuro della decisione fino all’ultimo momento. A pagare il conto furono non solo la società, lasciata in braghe di tela, ma anche l’intera comunità, all’interno della quale si verificò una mini-recessione proprio a causa dell’addio. Inoltre, egli in quel momento aprì il vaso di Pandora della nuova generazione dei Super Team, agglomerati di futuri Hall of Famer quali Wade, Bosh, Irving e Love. Un fenomeno che ancora oggi la lega sta cercando di arginare. Ancor più in generale, a molti fanno storcere il naso alcuni punti fermi dello stile di gioco del King, come la tendenza a fare passi, ad accentuare i contatti (quando non si tratta di veri e propri flop) e a passare i tiri decisivi. Tutti aspetti che nell’era digitale non passano inosservati, specie se derivanti dal singolo atleta più scrutinato della storia.
Dar conto delle critiche non vuole dire imputargliele tutte come gravi colpe. Ad esempio, il suo record – ad oggi – perdente di 3-5 alle Finals meriterebbe due asterischi. Il primo, nel 2007, per aver tentato la sorte contro i ben più quotati Spurs con una squadra non del tutto pessima, ma certo non all’altezza. Se poi si confrontano i futuri Hall of Famer con cui ha giocato di lì a poi, un gruppo con Hughes, Gooden e Pavlovic non poteva fare molto di più che venire spazzato via dai più nobili speroni. Il secondo asterisco va posto al titolo perso contro i Golden State Warriors nel 2015. Già privi di Kevin Love infortunato alla spalla, i Cavs persero anche Kyrie Irving in Gara 1 delle Finals. Un pur eroico LeBron non poté far molto di più che trascinare la serie alla sesta partita. Il ritorno a casa e l’anello del 2016 valgono uno per i libri di storia, ma molto di più a livello emotivo. Perché arrivato dopo essere stati sotto 3-1, perché giunto ai danni della miglior squadra di regular season della storia e perché era finalmente One for the Land, da solo in grado di cancellare una maledizione sportiva che persisteva sulla città di Cleveland dal 1964. Nonostante l’impresa titanica, di nuovo quest’anno egli aveva qualcosa da dimostrare, battere i Warriors partendo da sfavorito nella bella della trilogia. Se vince troppo, è perché non c’è competizione, ma se vince poco, non è all’altezza di MJ. Come a scuola, anche per i grandi gli esami non finiscono mai.
A soli 32 anni LeBron domina innumerevoli voci statistiche. Fra molte trascurabili, vale la pena citare quelle relative ai playoff: 21° per stoppate, 7° per rimbalzi, 3° per assist, 2° per rubate e 1°, come già indicato all’inizio, per punti segnati. In altre parole, egli ha più rimbalzi di Olajuwon, più assist di Kidd, più rubate di Jordan e più stoppate di Garnett – tutti giocatori che dominavano nei rispettivi campi statistici. Nei sei anni fra il collasso contro Dallas e l’anno appena conclusosi, LeBron ha vissuto una stagione dopo l’altra da extraterrestre, finendo ogni anno in finale e sempre con una legittima chance al titolo. Calcolatrice alla mano, se terrà almeno 23 punti di media (ne ha 25.6 dal ritorno in patria) giocando 20 stagioni totali da 70 partite l’una, LeBron potrà arrivare a diventare il miglior giocatore per punti segnati nella storia della lega. Il record è stato fissato da Jabbar con 38387. Mantenendo il passo indicato, LBJ arriverebbe a 38447 allo scoccare del suo 37° compleanno. Condizione fisica e psichica suggeriscono che il record è alla portata, ma il chilometraggio da veterano cui ha sottoposto i suoi muscoli e le sue ossa possono presentare il conto nel momento più inatteso. Basterà diventare il marcatore #1 di sempre per diventare il #1 di sempre? Oppure bisognerà vincere ancora uno o più anelli? Con LBJ sembra sempre che ci sia un nuovo ostacolo davanti, una nuova prova da affrontare e superare non solo per aspirare al primo posto sul Mount Rushmore NBA, ma per mettere a tacere le incessanti critiche. E allora che cosa separa realmente LJ da MJ?
C’è chi vive la vita secondo il motto “nuovo è sempre meglio.” Un 50 pollici 4K della Sony ha certamente una risoluzione migliore del televisore a manopola dei vostri nonni, ma nello sport e nell’NBA in particolare esiste una tendenza predominante a guardare al passato con una venerazione assoluta rispetto al presente. Ad esempio, i vecchi e orgogliosi membri dei Bulls del ’96, dei 76ers dell’83 e dei Lakers dello Showtime insistono che avrebbero spazzato via i Warriors versione 2017, ovviamente senza controprove. La diatriba MJ-LBJ segue binari simili. Un uno-contro-uno, impossibile sul campo, porta con sé liste infinite di pro e contro, e dal basket (peraltro giocato con regole diverse e tendenze ancor più divergenti) si rischia di passare ad un pingpong di se e di ma. Proviamo ad assecondare lo scontro generazionale in un classico botta e risposta: MJ ha raggiunto il record di punti ai playoff con 33 gare giocate in meno… ma LeBron lo ha battuto prendendo 118 tiri in meno… Ray Allen ha salvato la carriera di LeBron con quel tiro allo scadere… ma anche John Paxson e Steve Kerr hanno dato una grossa mano a Jordan nei momenti decisivi… Sì, ma Jordan non ha mai lasciato i Bulls… eh, ma LeBron non si è mai dato al baseball o preso vacanze sul green… Però non bisogna scordare che nel ’93 MJ mantenne i 41 punti di media contro Phoenix in finale… e invece LBJ si è “limitato” ad essere il migliore di entrambe le squadre nelle Finals 2015 per punti, assist, rimbalzi, rubate e stoppate, mettendoci pure una tripla doppia in Gara 7… vuoi mettere però i tiri allo scadere di Mike…? Guarda che nei tiri decisivi negli ultimi 5″ ai playoff MJ è 5 su 11 e LeBron 6 su 12…
Pausa. Prendiamo fiato. Entrambe le parti hanno ottime motivazioni, pur molto legate a contingenze di epoca e di affetto. Com’è possibile che due generazioni così vicine non riescano a trovarsi d’accordo? La risposta a questa domanda è ancora più importante di quella che aveva aperto l’articolo in maniera falsamente semplicistica. Si sta infatti discutendo di due questioni simili, ma non identiche. La domanda andrebbe quindi divisa in due sottocategorie. Da una parte, chi è il giocatore di basket più forte mai esistito e dall’altra chi è il vero e proprio sinonimo col concetto stesso di basket. In questa seconda accezione – diciamolo chiaramente – MJ resterà il G.O.A.T. (Greatest Of All Time) e questo non cambierà mai. Jordan è arrivato a dominare la NBA nell’epoca d’oro della lega, quando stava espandendosi in tutto il mondo e conquistando un pubblico giovane e alla ricerca di un nuovo eroe. Jordan ha incantato milioni di ragazzini non solo in campo coi suoi 6 anelli in 6 finali, ma sugli schermi con Space Jam, nei negozi con le Air Jordan, e in ogni campetto di periferia in cui tutti volevano essere like Mike. E uno di quei ragazzini, guarda caso, era proprio LeBron. Questo ci riporta ad un altro passaggio chiave di quella sua già citata intervista:
“I wear the number because of Mike. I think I fell in love with the game because of Mike. […] I didn’t ever believe I could be Mike. […] So I think that helped shape my game. […] I did it just being me. I don’t have to score the ball to make an impact in the basketball game, […] because scoring is not No. 1 on my agenda.”
Ecco, James non potrà mai essere separato da Mike perché appunto questa non è una questione che ha a che fare con numeri statistici. Se si parlasse di anelli vinti in totale, il migliore sarebbe Bill Russell, se si parlasse di punti lo sarebbe Jabbar, se si parlasse di dominio totale fra i propri simili sarebbe Wilt Chamberlain. La questione si riduce molto più semplicemente a tutto ciò che non si può misurare con numeri e percentuali. Ci si riferisce all’aura di invincibilità e di divinità che Jordan emana ancora oggi e da cui è impossibile distaccarsi a prescindere dalla latitudine in cui si è nati. LeBron ha scelto di provare ad essere come Jordan scegliendo il 23, lanciando la sua linea di abbigliamento sportivo e scendendo in campo con Bugs Bunny e Taz (prossimamente con Space Jam 2). Eppure forse dentro di sé sa che non potrà mai soppiantare Mike così nel profondo e a livello universale nei cuori degli amanti della pallacanestro. E questo è vero da un punto di vista economico oltre che romantico. Per dare un’idea, stando a Forbes, LeBron è in testa a tutti i suoi coevi come numero di scarpe venute, all’interno del suo sodalizio a vita con Nike. Nel 2014, ad esempio, questo si è tradotto in $340 milioni generati per Nike su suolo americano solo da LeBron, pari allo 0,4% del fatturato totale di Nike per quell’anno. Tuttavia, nello stesso arco di tempo, le scarpe con marchio Jordan hanno generato 10 volte tanto, per la cifra astronomica di $3 miliardi, ossia l’8% degli incassi Nike.
Siccome ci sarà sempre qualcuno che dirà che Mike l’aveva fatto meglio, LeBron ha scelto di separarsi dall’ingombrante ombra del #23 originale e diventare la versione migliore di se stesso. Non più cercando di imitare in tutto Jordan come da ragazzino, ma accettando la sua diversità non come un difetto, ma come doni fisici e tecnici che nemmeno l’altro poteva sognare di avere. Sì, MJ resterà per sempre il G.O.A.T., ma al momento (del suo ritiro, ma anche in quello presente) LeBron è e sarà indiscutibilmente il più forte giocatore di sempre. Perché se in laboratorio potessimo assemblare il miglior archetipo di giocatore di basket, forte ma dinamico, con visione di gioco e dominante a rimbalzo, in grado di tirare giù i tabelloni con una schiacciata e di fare un passaggio a una mano per ribaltare lato del campo, questi ne uscirebbe drammaticamente simile a LeBron. E non solo sul campo. Se di Jordan restano noti i problemi col gioco d’azzardo e la presunta citazione che “anche i Repubblicani comprano scarpe da ginnastica,” LeBron non ha mai avuto una macchia sul suo curriculum né la paura di farsi avanti e farsi portavoce delle difficili dinamiche sociali che affliggono ad oggi i neri d’America. Tramite la sua LeBron James Family Foundation poi ha stabilito una partnership con la University of Akron per concedere borse di studio di quattro anni a più di mille ragazzi della sua comunità, per dare anche ai più svantaggiati la possibilità di fare la differenza. Eppure ciò continua a non bastare nella mente di molti. Appena due anni fa, alla domanda “chi vincerebbe un 1-contro-1 fra MJ e LeBron?”, solo poco più della metà degli intervistati rispose pro LBJ. Non importa che MJ di anni ne ha 22 più di LeBron ed è già oltre i cinquanta, His Airness resta per tanti appassionati un mito senza età. Insomma, Jordan resterà per sempre al basket quanto Muhammad Ali è stato alla boxe o Babe Ruth al baseball – e questo nessun evento o persona potrà mai scalfirlo. D’ora in poi, invece, dovremmo tutti solo goderci LeBron finché possiamo e apprezzarne le gesta ad ogni allacciata di scarpe, senza dilungarci in inutili paragoni.
MVProf
P.S. Eh, ma allora Kobe coi suoi 5 anelli dove lo mettiamo? Accidenti…