L’arte del three-peat
I Warriors potrebbero essere i primi a raggiungere un three-peat dal 2002
Vincere un titolo è una grande impresa. Vincerne due è straordinario. Ma vincerne tre di fila assicura un posto nella storia. Questo tipo di impresa leggendaria viene chiamato three-peat, e da quando fu protetto da copyright da Pat Riley dalla stagione NBA 1988-89 è entrato nel lessico sportivo americano. Facendo un giro attorno al mondo, scopriamo che nell’era moderna solo pochi, straordinari team hanno raggiunto l’impresa. Escludendo i titoli nazionali, nel calcio il primato appartiene al Real Madrid, l’unica squadra ad aver vinto tre volte di fila la massima competizione europea, ovvero la Champions League (2016-18). Nel baseball, i New York Yankees vantano ben tre strisce titolate da almeno tre World Series (1936–38, 1949–51 e 1998-00), mentre agli Oakland Athletics ne spetta “solo” una (1972-74). In NHL hanno centrato l’obiettivo due volte sia i Toronto Maple Leafs (1947–49 e 1962-64) che i Montreal Canadians (1956–58 e 1976-78), e una i New York Islanders (1980-82). In alcuni dei casi citati, la striscia si è estesa oltre ai tre titoli canonici.
Tale premessa aveva lo scopo di introdurre il tema per poi soffermarci in particolare sulla NBA. Con i playoff 2019 in pieno svolgimento, il tema del three-peat è tornato in auge. I Golden State Warriors sono infatti a caccia del loro terzo Larry O’Brien Trophy dal 2017 e questo ci porta a fare un parallelo fra il percorso di questi aspiranti Dubs e quelli delle squadre da three-peat che li hanno preceduti, con particolare enfasi sul cruciale terzo anno. A monte c’è da fare un rapido distinguo. In NBA è difficile definire in maniera chiara quando inizi l’era moderna: per alcuni parte dalla fusione con l’ABA (1976), per altri dall’introduzione della linea dei tre punti (1979) o ancora dalle radicali modifiche al regolamento (2001). Da un certo punto di vista, si potrebbe affermare di trovarci in una nuova era di basket, fondata su spaziature e analytics. Ad ogni modo, il consenso generale è che dal computo siano esclusi i Minneapolis Lakers di George Mikan (1952-54) i Boston Celtics di Bill Russell, che dal 1959 furono addirittura in grado di trionfare otto volte consecutive. Chi senza dubbio rientra nell’Olimpo del three-peat sono i Chicago Bulls, capaci di raggiungere l’obiettivo in ben due occasioni separate.
Per raggiungere il primo tassello nella stagione 1990-91, era stato fondamentale per Michael Jordan e soci superare la bestia nera Bad Boys dei Detroit Pistons. Due stagioni più tardi, il loro nemico principale erano loro stessi. Mantenere alto il livello di concentrazione e combattere la sensazione di appagamento erano problematiche solo all’apparenza veniali per la truppa di coach Phil Jackson. Non a caso, nella fatidica stagione 1992-93, i Bulls vinsero appena 57 partite, addirittura dieci in meno della stagione precedente. Chicago si presentò quindi ai playoff dovendo inseguire a est i New York Knicks di Ewing e a ovest i Phoenix Suns di Barkley, ma nel momento della verità sfoderarono tutta la loro classe. I Bulls ebbero la meglio di entrambi gli avversari in sei gare e, specialmente nel corso delle Finals, Jordan fu fantascientifico. Contro Phoenix mantenne medie di 41 punti, 8.5 rimbalzi e 6.3 assist. Il vantaggio campo fu immediatamente annullato strappando subito il 2-0 in Arizona e fu poi suggellato in Gara 6 da una storica azione corale traboccante di zen partita da MJ, rifinita da Pippen e Grant, e infine suggellata da una tripla di John Paxson.
Ritiratosi dopo il three-peat, Jordan tornò ai Bulls solo nel 1994. L’anno dopo fu subito di nuovo titolo, ma ancora una volta spostiamo l’attenzione sugli eventi del terzo anno. Durante il 1997, l’infortunio di Pippen impedì ai Bulls di funzionare a pieno regime, ma a fine stagione i Bulls avevano di nuovo il miglior record NBA. Ma i veri problemi erano dietro le quinte, più precisamente nelle storie tese fra le stelle del team e il GM Jerry Krause. Jordan e Pippen erano a malapena in grado di mantenere con lui un armistizio di reciproco vantaggio e ancora più aperta era l’ostilità fra coach e GM. Ciò non toglie che un roster imbottito di over 30 fosse giunto al limite – specie il 35enne Jordan che per primo sapeva che non sarebbe più tornato. Poiché MJ ha sempre avuto una certa abilità sia nello scrivere i copioni che ad eseguirli, la sua profezia non poteva realizzarsi con un addio più iconico. In Gara 6 delle Finals contro gli Utah Jazz, MJ mise l’autografo su una sequenza da cinema. Canestro del -1, scippo a Malone e jumper della vittoria ad ammutolire l’intera Salt Lake City. Appena un anno dopo, privi delle loro stelle i Bulls chiusero col peggior record della Central Division.
Nella stagione 1999-00, Phil Jackson si trasferì in SoCal con l’intenzione di elevare i Los Angeles Lakers del duo Shaquille O’Neal e Kobe Bryant nei dominatori della lega. Shaq stabilì il proprio ruolo di giocatore più dominante della lega, ma quel suo fisico da 2 metri e 16 si confermò la custodia di un ego altrettanto mastodontico che andò presto a scontrarsi con la Mamba Mentality ante litteram di Frobe. L’incessante botta e risposta fra i due causò alla franchigia grossi grattacapi dentro e fuori dal campo, e i primi due titoli portarono solo per breve tempo ad un cessate il fuoco. Infortuni, lutti familiari e l’attacco alle Torri Gemelle resero la cruciale stagione 2001-02 assai diversa dalle precedenti due. Anche perché il miglior record della lega era proprietà dei Sacramento Kings, inviperiti dopo due eliminazioni consecutive ai playoff proprio per mano loro dei Lakers. Se è vero che lega e arbitri complottarono per sabotare i Kings nella controversa Gara 6 delle WCF, resterà un mistero che David Stern porterà con sé nella tomba. Quel che è certo è che fu quella serie la vera a finale, visto che i New Jersey Nets furono poi cappottati da LA con un 4-0.
Dal 2002 a oggi, solo i Lakers (2009-10) e i Miami Heat (2012-13) sono stati in grado di fare doppietta di titoli, ma il three-peat è rimasto una chimera. Almeno fino a quest’anno, quando i Warriors avranno la chance di raggiungere il primo three-peat della loro storia. Un loro eventuale accesso in finale sarebbe peraltro il quinto consecutivo, un record mai più raggiunto degli anni ’60. Gli indizi raccolti confermano l’esistenza di similarità fra questi Warriors e i loro predecessori. Come per i Bulls, una delle sfide di coach Kerr è stata mantenere alto il livello di attenzione durante l’anno. Questa è stata per i Warriors la peggiore regular season degli ultimi 5 anni e ha visto GSW venire spazzata via in più di un’occasione in casa e fuori.
E come per i Lakers, anche i Dubs hanno dovuto far fronte alle schermaglie di due dei loro All-Star. Lo scorso novembre, Draymond Green e Kevin Durant hanno avuto un acceso diverbio sia in campo che poi in spogliatoio, dove sono volati insulti e parole grosse. La faida fra i due sembra ormai alle spalle, ma con KD a fine contratto questo incidente potrebbe convincere l’ex OKC a lasciare la baia. La free agency nel suo complesso non va sottovalutata, visto che nessun giocatore oltre a Steph Curry è firmato oltre il 2020, segnale che presto arriverà la fine della dinastia Warriors per come la conosciamo. Riusciranno a chiudere questo leggendario capitolo della storia NBA con un three-peat? Ancora un mese e sapremo la risposta.
MVProf