L’America di Colin Kaepernick

Vademecum esaustivo su Kap e l’America

Nonostante vi siano stati accenni qua e là in altri pezzi relativi al football, l’articolo pubblicato su questo sito il 22 settembre scorso è stato l’unico incentrato da C3S interamente su Colin Kaepernick e la sua protesta. In questi mesi c’è stata una certa scarsità di veri e propri fatti relativi al giocatore su cui basare ulteriori articoli, ma la storia ha compiuto ormai un anno e la stagione NFL 2017 è ormai alle porte. Facciamo allora un passo indietro e andiamo a ripercorrere brevemente le tappe della protesta una ad una, fino a dare uno sguardo d’insieme all’arduo compito intrapreso da Kap. Dallo scorso agosto, l’ormai ex QB dei San Francisco 49ers Colin Kaepernick ha deciso di protestare in maniera non violenta contro l’oppressione delle minoranze in America inginocchiandosi durante l’inno americano. Come già spigato in precedenza, l’inginocchiarsi non ha nulla a che vedere con la genuflessione cattolica, postura tipica della contrizione, ma equivale invece ad un netto contrasto con lo stare sull’attenti tipico dei militari. E proprio in relazione ai militari sono piovute le prime pesanti critiche, secondo le quali l’atto di Kap infanga la bandiera e i membri delle forze armate. Con la fine della stagione di Kaepernick è coincisa la fine della sua carriera ai 49ers. Egli è così diventato free agent, situazione che ancora oggi persiste.

Non bisogna fare della dietrologia per capire che ciò è in gran parte legato alla sua posizione di paria nei circoli NFL più della sua produzione in campo. I proprietari non vogliono accollarsi un personaggio ingombrante come Kap e per certi versi hanno le loro ragioni. Ragioni che con la bandiera non hanno nulla a che fare. Contrariamente a quello che vincitori di Oscar e Grammy dicono, in America l’unico Dio che conta è il Dio Denaro e questo è il prisma attraverso il quale interpretare buona parte della storia. Se Kap aiutasse i proprietari ad incrementare ancora di più i loro guadagni, non c’è dubbio che ora verrebbe da time-kap23s.jpgquesti litigato e osannato per il coraggio delle sue azioni. Poiché c’è anzi il rischio che per “colpa” sua questi perdano migliaia di dollari causa sabotaggi vari di tifosi e sponsor, è dagli stessi ostracizzato come cattivo esempio. Quei proprietari oggi trincerati dietro alti valori come patriottismo e giustizia sono gli stessi che da anni concedono una seconda o una terza possibilità a giocatori rei confessi dei crimini più odiosi, come violenza domestica e guida in stato di ebbrezza.

Il motivo per cui ci sono disparità di trattamento è di nuovo relativo ad un mero tornaconto dei proprietari. Un duplice esempio per riassumerne a centinaia. Sia Ray Rice che Joe Mixon (qua la storia a lui dedicata) sono due running back, entrambi hanno colpito con un pugno una donna e in tutti e due i casi le immagini hanno fatto il giro dei notiziari. Ma uno è da tre anni senza lavoro, l’altro è appena stato draftato dai Cincinnati Bengals. Perché Rice, 27 anni al tempo dei fatti, era in declino, mentre Mixon a 21 anni è carne fresca da sfruttare ancora per qualche stagione. Se si fosse usata la stessa scala di valori, allora o giocherebbero entrambi o nessuno dei due. Non resta che concludere che la loro utilità sia l’unico distinguo nella diversità della loro condizione attuale. E ai proprietari oggi Kap non è più utile di un qualsiasi altro backup QB. L’America ama gonfiarsi il petto parlando di patriottismo o del dare la classica seconda chance hollywoodiana, ma diventa tutto carta straccia quando si parla di business. E quello della NFL è un business che nel solo 2017 genererà 14 miliardi di dollari.

Nessuno vuole rinunciare a una fetta di quei dollari cash in nome di un ideale astratto. Nemmeno i colleghi di Kap. Quelli di alto livello temono di perdere gli sponsor e quelli meno importanti sono incentivati dal sistema stesso a tenere un basso profilo. Diversamente dalla NBA, in NFL non esistono contratti garantiti fino all’ultimo centesimo, il che significa che una star infortunata è una star senza lavoro. Figuriamoci se si tratta di un giocatore qualunque. Per di più, agosto è il momento-chiave non solo per Kaepernick, ma per tutta la “manovalanza” NFL a rischio taglio. Con una carriera media da professionista di appena quattro anni e lo spettro della bancarotta entro tre anni dal ritiro – senza contare il rischio del tutto concreto di danni permanenti a corpo e mente – non è da biasimare chi, in questa fase di tutti contro tutti, tenta di portare a casa la busta paga tenendo per sé le proprie opinioni. Vale la pena aggiungere che il 70% dei giocatori NFL è di colore e quindi di sicuro una propria opinione ce l’ha eccome. Ma sceglie il silenzio. Il che è un’ulteriore dimostrazione di come nell’affaire Kaepernick la morale sia secondaria e il punto di vista strettamente sportivo quasi del tutto irrilevante. Se dipendesse unicamente da quello, è dimostrabile coi numeri e con la storia che Kap potrebbe essere il titolare di almeno 6-7 squadre e di tutte e 32 essere un ottimo backup. E invece tutta questa sovrastruttura farà sì che Kaepernick inizierà la stagione 2017 in pantofole sul divano.

Fin qui si è trattato il punto di vista di giocatori e proprietari, ma cosa ne pensano i fan, i fruitori ultimi della carovana diretta da Roger Goodell? Più che parlare di fan in senso stretto, il discorso andrebbe ampliato all’americano medio, visto che ormai la vicenda ha valicato i confini degli stadi. Gli USA sono forse l’unico paese al mondo in cui questa vicenda poteva avere luogo e una risonanza così duratura. A memoria, in Italia le ultime polemica relative alla mancanza di valori patriottici da parte degli atleti sono giusto un paio. Al Mondiale 2006 Mauro German Camoranesi decise di non cantare l’inno di Mameli e poi alle Olimpiadi di Londra 2012 Federica Pellegrini si rifiutò di fare la portabandiera per gli Azzurri. L’Italia sarà pure campione del mondo di polemiche, ma queste nello specifico ebbero una breve eco. Mettendo da parte per un attimo le motivazioni personali di questi atleti, capire il perché di una ricezione tanto diversa dei rispettivi paesi è una questione complessa, ma comprensibile. La mentalità europea e il peso delle tradizioni passate rendono lo sport un mero passatempo per la stragrande maggioranza degli europei. Pure per chi vive il calcio con passione sfrenata, il pallone non trascende la sfera dell’agonismo né tantomeno va a contaminare quello dell’epica.

In un contesto culturale europeo in cui Achille, Ulisse, Re Artù, Rolando, i Nibelunghi e Beowulf hanno mosso i loro primi, epici passi, non c’è spazio neppure per gli atleti più forti dei nostri giorni di elevarsi a quel livello di epicità. L’Italia ha Enea come mitico fondatore della propria civiltà, nella sua epica avventura vissuta con Didone, la Sibilla e re Turno. L’America, dal canto suo, è del tutto priva di quelle gesta mitiche che hanno fondato o plasmato la loro terra. Se proprio volesse scavare in profondità nel cuore dei suoi cittadini, questi vi troverebbero come pietre fondanti della loro storia due dei più grandi massacri mai compiuti dagli uomini, ovvero lo sterminio degli indiani d’America e l’istituzione moderna della schiavitù in Occidente. E così, non potendo contare sulla letteratura né sulla storia, si è inventata i propri paladini dalla lucente armatura in versione moderna. Due sono le fonti da cui attingere e non a caso entrambe sono loro 11_symbol_dollar_NikWaller.jpginvenzioni: fumetti e sport americani. Non è questa la piattaforma per trattare del primo, ma va detto che essi hanno lo scoglio dell’età e restano pertanto un hobby in gran parte legato all’infanzia. Ed è qui che entrano in scena gli atleti.

In questo è inevitabile prendere spunto da un’intervista di qualche tempo fa di Federico Buffa in un intervento sulla distanza fra Italia e Europa. L’avvocato sosteneva giustamente il valore sociale dello sport e di come questo in America faccia sì che gli idoli sportivi siano oggi trattati con una logica epica. Ma vogliamo andare un passo oltre. Come l’epica vera e propria è permeata da una massiccia presenza di simboli, anche quella moderna creata negli USA è dotata di una sua simbologia. Già solo esaminare una banconota da un dollaro significa avere tra le mani un’enciclopedia di simboli. L’aquila, le frecce, la piramide, l’occhio onniveggente, nonché la classica squadra e compasso cari alla massoneria. Il simbolo-chiave del paese è però la propria bandiera. Tale vessillo a stelle e strisce racchiude una stella per ognuno dei 50 stati e 13 strisce come il numero delle colonie americane originarie. La bandiera si fa così simbolo di unità fra passato e futuro, fra singolo e collettivo. Non serve andare per forza nella bible belt per vedere in ogni città case su case con esposto il vessillo sul portico o addirittura su una vera e propria asta in giardino da cui fare l’alza bandiera ogni mattina.

Dalla prima versione nata nel 1775 a quella odierna, la bandiera si è caricata di volta in volta di significati ed è ormai tutt’uno col tessuto sociale della nazione. Nazione appunto che già dalla tenera età impara a memoria il giuramento di fedeltà alla bandiera, che recita: “Giuro fedeltà alla bandiera degli Stati Uniti d’America, e alla Repubblica che essa rappresenta: una Nazione al cospetto di Dio, indivisibile, con libertà e giustizia per tutti.” Vale la pena notare che in esso la bandiera viene nominata per prima, e solo poi seguono altri concetti di ben altra levatura come repubblica, Dio, libertà e giustizia. Ecco perché mancare di rispetto alla bandiera è forse la cosa più anti-americana che esista: essa racchiude al suo interno i concetti più sacri che esistano e grazie ad essa ne diventano espressione fisica. Dopotutto denigrare la giustizia è qualcosa di ben più astratto che denigrare una bandiera che si può vedere e toccare. Ma il paradosso è che si sta assistendo ad una guerra di simboli, bandiera contro ginocchio. Solo in pochi riescono a scorgere oltre la cortina di fumo creatasi per via di questi simboli.

Umberto Saba una volta disse che “patriottismo, nazionalismo e razzismo stanno fra di loro come la salute, la nevrosi e la pazzia.” Purtroppo, non esiste un confine così marcato fra questi tre sentimenti e le sfumature non sempre sono percepite in maniera chiara dalla massa. Una massa di 323 milioni di persone distribuita in 50 stati su 9 milioni di km² e sei fusi orari distinti. Come hanno dimostrato le ultime elezioni presidenziali, il federalismo americano è più fragile che mai. Le esigenze dei blue collar dell’Ohio sono diametralmente opposte a quelle dei white collar di Wall Street e ciò che offende a morte Hollywood viene accolto da un applauso in Alabama. Per non parlare del fatto che California e Texas flirtano non troppo segretamente col concetto di essere repubbliche, con già nel loro passato una storia di secessione. Eppure tutti loro trovano rifugio sotto quella rassicurante bandiera rossa, bianca e blu. Si badi che qui si cerca di fornire il punto di vista dell’America bianca e capitalista, che non può permettersi di riconoscere per sé una progenie di assassini e schiavisti. Perfino i padri fondatori della nazione erano personaggi che, misurati con una scala di valori odierna (operazione forse ingiusta, ma nondimeno affascinante), risultano al limite del criminale.

Infatti, Washington, Franklin e Jefferson erano proprietari di numerosi schiavi. Mentre da un lato si facevano promotori della libertà e del diritto all’autodeterminazione, dall’altra non vollero rinunciare ai privilegi della loro razza rispetto a quella nera. Uno su tutti, Jefferson, ebbe una relazione clandestina basata sulla violenza sessuale con una delle sue schiave, Sally 160608_SNUT_Ali-Vietnam.jpg.CROP.promo-xlarge2.jpgHemings. La schiava, all’epoca 14enne, divenne madre di diversi figli illegittimi del futuro 3° presidente USA e testimonianza vivente di un doppio standard stridente fra uguaglianza e “uguaglianza.” Fast forward 200 anni circa. L’esercito USA impegnato in Europa contro i nazisti, e poi in Corea e Vietnam, vedeva al suo interno diversi soldati afroamericani impegnati nella lotta per la libertà. Eppure, ai prigionieri di guerra veniva riservato un trattamento per certi versi migliore di quello riservati ai soldati neri. La disparità non restava all’interno di questa “band of brothers.” Tornati a casa, i bianchi erano celebrati come eroi di guerra, mentre i neri restavano cittadini di serie b, ad essere generosi. Non va in questo senso dimenticata la diserzione di Muhammad Ali. Chiamato alla leva per la guerra del Vietnam nel 1967, egli rifiutò la chiamata pronunciando alcune delle parole più significative di quel decennio:

La mia coscienza non mi permette di andare a sparare a uno dei miei fratelli, o persone dalla pelle più scura, o altra povera gente affamata nel fango per la grande potente America. E sparare loro per cosa? Non mi hanno mai chiamato negro, non mi hanno mai linciato, non mi hanno mai sguinzagliato contro i cani, non mi hanno mai derubato della mia nazionalità, stuprato e ucciso mia madre e mio padre. […] Sparare loro per cosa? Come posso sparare a quella povera gente? Portatemi in galera e basta.

Oggi Ali viene visto come un eroe, eppure per l’America bianca non era un “obiettore di coscienza,” come oggi è educato dire, ma un dannato traditore da spedire in gattabuia. C’è chi definisce gli Stati Uniti d’America come il più grande esperimento sociale della storia, in cui per la prima volta popoli di ogni retaggio potevano finalmente trovare quel diritto alla vita, alla libertà e alla ricerca della felicità che campeggia sulla Dichiarazione d’Indipendenza e che veniva negato loro altrove. Nel 2017, questa visione distorta della storia resta attuale per molti americani, per non dire la stragrande maggioranza. Ma cosa rende gli USA la più grande nazione al mondo, come amano definirsi? È la libertà? Ci sono altri 88 paesi considerati liberi, secondo lo Human Freedom Index. La cultura? Il livello medio americano di alfabetizzazione è attestato sul 75% contro la media mondiale dell’86%. Il sistema sanitario? Se ad oggi ne avessero uno – siccome il governo Trump ancora non è riuscito a far passare una riforma per abrogare/modificare l’Obamacare – non sarebbe comunque granché, visto che 26 milioni di americani vivono senza assicurazione e il costo medio pro capite è di $9,024 (quasi il triplo della media dell’OCSE.)

L’aspettativa di vita alta? Beh, visto il dato precedente proprio no: gli USA sono al 42° posto, dietro anche alle Fær Øer. Niente da fare nemmeno per ricchezza pro capite, libertà di stampa o di religione. Certo, per ora resta l’economia più grande al mondo, ma ci sono altri campi in cui primeggia e sono davvero poco esaltanti. Ad esempio, i criminali incarcerati (693 per 100mila abitanti) e peggio ancora è il dato relativo alle armi da fuoco. La metà delle armi da fuoco in circolazione in tutto il mondo si concentra solo negli States, che con 300 milioni fra pistole e fucili fa sì che ci sia una media di circa una pistola a persona, neonati inclusi. Per di più, 7.7 milioni di americani sono considerati “gun super-owners,” avendone registrate a proprio nome un numero fra 8 e 140, secondo A-Family-Of-Gun-Owners-fired-on-a-home-invader-and-killed-him-photo-credit-Pic-Pedia.jpguno studio del Guardian. Tutto regolare, stando al secondo emendamento. Se oggi gli USA non sono al primo posto come popolazione di obesi è solo perché sono stati da poco superati da stati come Qatar ed Emirati Arabi da quando questi ultimi hanno scoperto… il cibo dei fast food americani. No, decisamente non sono la migliore nazione al mondo.

Paradossalmente, proprio sul sentimento patriottico di rivalsa ha incentrato la sua campagna il Presidente Trump, grazie allo slogan “Make America Great Again.” In realtà, non si tratta di una trovata originale, siccome già prima di lui il MAGA era stato lanciato da Reagan negli anni ’80 e poi di nuovo da Clinton negli anni ’90. Da candidato, Trump era andato controcorrente, dicendo apertamente che l’America di fatto non era più al numero uno e per questo bisognava riportarla al vertice. Tuttavia, riportarla al primo posto vuol dire che lo è stato in precedenza. Se non lo è già ora, allora quando? Nel momento della sua fondazione c’era la schiavitù, fino al primo ‘900 le donne non potevano votare, a metà del secolo c’era la segregazione e a cavallo della fine dello stesso c’è stata la crisi finanziaria mondiale, legata a doppio filo agli americanissimi mutui subprime. Eppure è innegabile che in meno di 250 anni questo paese ha creato la prima democrazia moderna, ha imparato a volare, è arrivato sulla luna, ha creato internet, il pane in cassetta e Bob Dylan.

In quel breve lasso di tempo, i disperati sbarcati a Plymouth con le fibbie nel cappello sono diventati i padroni del mondo. Ci sono scaglioni interi di 250 anni nella storia greca e latina o nel Medioevo che tutti noi a scuola abbiamo trovato riassunti in un paragrafo o due sui testi di storia. Il che in prospettiva rende ancora più incredibile quanto realizzato dagli americani. Ma sempre dell’America bianca si parla, quella che prima era povera e ora si è arricchita. Per la minoranza nera poco è cambiato ed è opinabile se il paese si riprenderà mai dalla profonda cicatrice causata dall’aver considerato legittimo importare persone da un capo all’altro dell’oceano e trattarle come merce. Certo, oggi siamo in grado di ammirare la Sfinge o il Colosseo senza sentirci necessariamente afflitti dal fatto che siano stati costruiti da degli schiavi a loro volta, ma sono ormai passati millenni da allora. E nessuna civiltà ha il lusso di un’attesa tanto grande, ancor meno gli Stati Uniti ai ritmi del mondo d’oggi. Gran parte dei membri delle minoranze oppresse dai bianchi faticano a chiudere quelle memorie in un cassetto, ma la loro voce resta, per l’appunto, minoritaria e spesso inascoltata. Ed è qui che Kaepernick ritorna protagonista di questa storia.

Quasi tutti i più grandi rivoluzionari della storia sono stati presi per dei folli se non addirittura presi e bruciati su un rogo. Lungi dall’innalzare fin da ora Kap al rango di messia: egli non ha (ancora) la levatura per essere eretto alla pari di paladini dei diritti umani come Gandhi o Martin Luther King. È però facile supporre che questo suo gesto in futuro verrà visto in maniera ampiamente positiva. Non va scordato che negli anni ’60 MLK era l’uomo più odiato d’America, in un tempo – ma alcuni potrebbero sostenere, in alcune zone, anche tuttora – in cui gli afroamericani venivano picchiati, insultati e discriminati senza infrangere alcuna legge in vigore. Solo il fatto che il suo inginocchiarsi davanti ad una bandiera abbia spaccato il paese, fra chi in essa vede un simbolo libertà e chi di oppressione, dovrebbe bastare a far riflettere sulla diversità delle anime che abitano questa terra.

Fin troppe persone ancora spendono tempo a parlare di come mancare di rispetto ad un oggetto inanimato come una bandiera sia sacrilego, senza avere poi tempo – ma più che altro voglia – di riflettere sui perché. Superare la barriera dei simboli non è semplice, ma è necessario se si vuole portare un cambiamento. Quello più immediato è porre un freno alle numerose morti di giovani afroamericani disarmati per mano di poliziotti che, nella maggior parte dei casi, non subisce che un lieve richiamo disciplinare. A livello più ampio, si parla di mancanza di pari opportunità, giudizi stereotipati e scarsa rappresentazione, dal livello municipale a quello presidenziale. Il gesto di Kap in sé non serve a risolvere il problema, ma ha il merito di aver dato o-HOMELESS-facebook.jpgil via ad una discussione in molti casi fruttuosa e che è certo meglio sia nata da un atto non violento piuttosto che da un far west per le strade d’America.

Ad uno sguardo d’insieme che va ben oltre il singolo contesto statunitense, è facile vedere come le parole di Kaepernick, pur incentrate specificatamente sui neri nel suo paese, siano applicabili a diversi contesti culturali di questo decennio. Infatti, questo è indubbiamente il periodo storico in cui vengono messi maggiormente in discussione i valori della globalizzazione e del multiculturalismo. La tentazione è quella di tornare a chiudere le frontiere, scavare fossati e alzare le barricate. La paura del diverso è alle stelle e il passo successivo rischia di essere una ghettizzazione sistematica.

Dividere ogni singolo paese fra chi è bianco e chi no, chi è del nord e chi no, chi è etero e chi no, e così via. La realtà dei fatti è che circondarsi di persone uguali a noi, coi nostri stessi gusti e le nostre stesse opinioni genera una paralisi totale dell’essere umano e della sua crescita come tale. Dividere il mondo in province e staterelli è già stato fatto. Si chiamava Medioevo e non è certo stata l’apoteosi della civiltà umana. Oggi ci piace credere di essere una società più evoluta rispetto ad allora, e tuttavia si torna a parlare di alzare muri. La Muraglia cinese, il Vallo di Adriano e il Muro di Berlino rappresentano il passato e non è a quello che ci dovremmo ispirare. Semmai, dovrebbero essere fonte di insegnamento per non ripetere gli errori commessi. I passi da fare sono ancora maggiori di quelli già compiuti, sebbene per certi versi appaiono ciclopici paragonati a dove siamo rispetto a una o due generazioni fa. Come diceva Laozi, anche un viaggio di mille miglia inizia con un passo e Colin Kaepernick ha impresso la prima orma sul terreno. Un singolo uomo ha avuto il coraggio di dare il via, a tutti noi sta il compito di proseguire.

MVProf

 

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