I Warriors hanno rotto l’NBA
E se i Warriors fossero più o meno indirettamente responsabili di quest’incontrollata frenesia che anima così tanti fra giocatori e intere franchigie?
La prima prova a favore di questa teoria riguarda le risse. È una casistica seria, sebbene la durezza degli scontri non abbia raggiunto le vette di risse old school come Larry Bird contro Bill Laimbeer o Ron Artest contro l’intero Palace of Auburn Hills. Pugni e prese da arti marziali sono stati protagonisti ad esemio dei duelli rusticani di James Johnson -vs- Serge Ibaka e Arron Afflalo -vs- Nemanja Bjelica, tutti espulsi e poi squalificati. Marcus Smart dei Boston Celtics invece starà ai box per due settimane per aver preso a pugni in un impeto di rabbia un muro in hotel ed essersi procurato una lacerazione. L’episodio più grave è avvenuto il 16 gennaio fra Los Angeles Clippers e Houston Rockets. Fra campo e panchine sono volate spinte e parole grosse in varie fasi della partita, che peraltro Blake Griffin ha chiuso anticipatamente per un doppio tecnico. Dopo il fischio finale, Chris Paul (che dei corridoi dello Staples ha una conoscenza di lungo corso) ha guidato una comitiva che intendeva intrufolarsi nello spogliatoio dei rivali. La sicurezza dello Staples ha evitato che il confronto degenerasse, il che non ha comunque evitato che la lega comminasse ulteriori multe e sospensioni. Non sempre gli animi caldi dei giocatori hanno trovato sfogo nei propri colleghi. A finire nel fuoco incrociato sono infatti spesso e volentieri anche gli arbitri. Quest’anno l’ancor più marcata insistenza delle proteste dei giocatori nei confronti dei fischietti sembra inversamente proporzionale alla voglia di questi ultimi di subire le critiche. Se non stupiscono quelle di “soliti sospetti” come Green e Cousins, il nervosismo diffuso ha portato ad espulsioni di nomi eccellenti e inattese. Curry, KD, ‘Melo, Westbrook, Harden eDavis sono stati mandati anzitempo sotto la doccia per proteste. Non si è salvato nemmeno LBJ, alla prima espulsione in 15 anni di una fin lì immacolata carriera.
Quello dei Clips non è stato l’unico spogliatoio caldo di questi tempi. E qui le impronte dei polpastrelli dei Warriors sono ovunque. Dei problemi di formazione dei Cleveland Cavaliers avevamo già dato conto due volte da inizio stagione. La prima riguardava i problemi di lineup iniziale, la seconda quelli annuali di inizio gennaio. Le due circostanze, irrisolte, hanno generato una riunione interna allo spogliatoio, definita come incendiaria da una talpa presente all’incontro. Stando alla fonte, Kevin Love sarebbe stato messo al centro del mirino, accusato di aver abbandonato anzitempo la partita contro OKC per via di un malessere inventato. A puntare il dito sarebbe stato soprattutto Isaiah Thomas, uno degli ultimi arrivati. K-Love, in realtà, sta giocando una delle migliori stagioni dal suo arrivo a Cleveland e il solo calo di prestazioni coincide, non a caso, con i minuti che passa in campo insieme ad IT. Le sue decisioni col pallone in campo sono spesso criticabili, anche perché figlie di una mente che lo porta a tentare giocate che un corpo sottodimensionato e non al 100% non gli permette di fare. I problemi non riguardano solo quei due giocatori. Infatti, non si può non pensare anche a un Derrick Rose che si è preso due settimane sabbatiche lontano dal team a inizio anno per capire cosa volesse fare della propria carriera. Inoltre, non hanno certo aiutato la causa dei Cavs le scadenti prestazioni di JR Smith (34% da tre in stagione, percentuale peggiore dall’anno da rookie) e di Tristan Thompson, peggiorato letteralmente in ciascuna voce statistica analizzabile. Uno sguardo onesto alla situazione non dovrebbe risparmiare dalle critiche nemmeno LeBron James. Il re, che pure ha appena raggiunto il prestigioso traguardo dei 30mila punti, ha il peggior PER dell’intera NBA nel mese di gennaio.
Le risposte ai malesseri dei Cavs potrebbero venire ancora una volta via trade. E in questo senso LBJ potrebbe trovare un alleato in colui col quale si litiga lo status di GOAT. Michael Jordan ha infatti fatto trapelare di essere pronto a disfarsi di almeno uno degli esosi ma deludenti contrattoni distribuiti due anni fa ai suoi Charlotte Hornets. Nicolas Batum è il candidato principale a portare altrove i suoi rimanenti $77M in tre anni e, per ingolosire possibili partner, MJ inserirebbe addirittura il suo miglior giocatore, Kemba Walker. Gli Hornets non sono l’unica franchigia debitrice di aspettative mal riposte e mai raggiunte. Costretti a rivolgersi a misure drastiche sono stati anche i Milwaukee Bucks, che il 22 gennaio hanno licenziato il proprio allenatore, Jason Kidd, a causa del mancato salto di qualità di un gruppo guidato dal candidato MVP Giannis Antetokounmpo e dal neo-arrivato Eric Bledsoe. Il licenziamento però non solo è stato gestito in maniera maccheronica dalla dirigenza, ma anche non ha trovato d’accordo il Greek Freak, disposto a scontrarsi con la dirigenza per farla tornare sui suoi passi. Altri due uomini-franchigia sono in fase di collisione con le scelte della propria dirigenza. Damian Lillard ha incontrato Paul Allen, proprietario dei Portland Trail Blazers, per avere chiarezza circa la direzione della squadra, in un limbo di mediocrità. Più dura la posizione di Kawhi Leonard, in uno stato di guerra fredda coi San Antonio Spurs. Il malcontento di Leonard sarebbe duplice. Da un lato, le sole 9 partite giocate quest’anno e la nuova sosta forzata lo hanno fatto dubitare di come lo staff medico degli Spurs ha gestito il suo infortunio. Inoltre, Leonard teme che la difficoltà dei suoi di attirare free agent di primo piano all’Alamo aumenti la distanza già in crescita fra gli speroni e il titolo.
Siamo solo più o meno a metà della stagione regolare NBA, ma, al ritmo con cui le storie si susseguono una dietro l’altra, il materiale fin qui raccolto sembra quello che di solito si accumula in due o tre anni. Con tanti team e tante circostanze differenti analizzate, perché mai un solo team dovrebbe essere responsabile di tutti i mali di questa stagione NBA? La stragrande maggioranza dei team coinvolti in maniera più significativa in queste storyline sono Clippers, Rockets, Celtics, Raptors, OKC, Cavs, Bucks, Spurs e Blazers. Tutte squadre che, di base, avrebbero tutte le carte in regola per puntare ad una stagione ricca di soddisfazioni e con lunga vita ai playoff. La sola presenza dei Warriors però pare aver destabilizzato le certezze di questi team e dei propri giocatori, ora alla frenetica ricerca di cambiamenti radicali in corso d’opera. E, non a caso, questo furore è in fase di climax impennante in gennaio. È questo infatti l’ultimo mese pieno utile per apportare le ultime modifiche prima della deadline dell’8 febbraio che di fatto sigillerà i 30 team fino a giugno. C’è una controprova che può dare ulteriore spinta a questa teoria. A Chicago Mirotic e Portis si sono presi a pugni in allenamento, a Philly la prima scelta assoluta Fultz è sparito dai radar, mentre a LA LaVar Ball continua a seminare veleni restando impunito. Bulls, Sixers e Lakers non hanno l’ombra di un’ambizione da titolo e per questo c’è meno urgenza di interventi drastici. Si dice che il potere logora chi non ce l’ha e il dominio di questi Warriors sta davvero logorando tutti quelli che su questa NBA pensavano di avere almeno un minimo di voce in capitolo.
MVProf