The Curse of the Billy Goat
Macumbe, anatemi e malocchi: le maledizioni sportive attraverso la storia
Cosa può esistere di così potente da poter impedire ai Chicago Cubs per 108 anni di vincere le World Series? Gli analisti potrebbero puntare il dito su un management storicamente spilorcio e sulla lentezza con cui i Cubs hanno integrato i giocatori della Negro League dopo la fine della segregazione del 1947 con Jackie Robinson. Ma come si dice in questi casi, mai lasciare che la verità rovini una bella storia. Già, perché quella che gravava sui Cubs era una maledizione in piena regola. La leggenda – perché parlare di storia è un tantino eccessivo, siamo quasi nel folklore – inizia nella Chicago degli anni ’30 e ha come protagonista William Sianis, eccentrico proprietario della Lincoln Tavern al 430 di Michigan Avenue. Un giorno questi si imbatté una capra che vagava raminga e che trovò rifugio all’interno della sua taverna. Fu amore a prima vista. Sianis le diede il nome Murphy e la adottò come sua nuova mascotte.
Non solo cambiò il nome del locale da Lincoln a Billy GoatTavern, ma lui stesso compì una sorta di trasfigurazione nel look da novello satiro. Gli ovini non erano la sola passione di Sianis: al primo posto c’erano gli amati Cubbies. In un piovoso giorno autunnale del 1945, Sianis si recò allo stadio per Gara 4 delle World Series contro i Detroit Tigers con due biglietti, uno per sé e uno per Murphy. Anche per quei tempi si trattava di una trovata quantomeno bislacca, ma il casus belli fu il pessimo odore emanato dal cornuto ovino bagnato, che di certo non doveva profumare esattamente di Chanel N°5. Il proprietario dei Cubs, PK Wrigley, scese personalmente dagli spalti per cacciare i due dalla sua proprietà. Inviperito da tale affronto, Sianis pronunciò la sua macumba: “Them Cubs, they ain’t gonna win no more!” La capra, animale che non a caso dall’alba dei tempi viene associato col demonio, funse da catalizzatore e in un batter d’occhio fece attuare l’oscura profezia. Infatti, i Cubs persero contro i Tigers sia in quell’occasione che nella decisiva Gara 7.
La risposta a Wringley da parte di Sianis, troll ante litteram, è racchiusa in un breve telegramma. “Chi è che puzza adesso?” I Cubs erano avvisati: la maledizione era entrata in azione. Non che i dirimpettai dei Chicago White Sox potessero dire di passarsela meglio, già alle prese con un personale malocchio che li tenne a loro volta a secco di titoli per 87 anni. Con forze del male di tale portata ad agire a braccetto, Chicago dovette fronteggiare una totale assenza di titoli MLB per 194 anni combinati. La portata del malocchio forse sfuggì di mano al locandiere stesso, che prima di morire tentò di annullare in via ufficiale il sortilegio. Ma invano. La sbalorditiva sequela di incidenti nei 70 anni che seguirono quell’oscuro presagio non ha fatto che alimentare l’alone di mito attorno a Sianis e la sua maledizione caprina.
Il 9 settembre 1969 i Cubs facevano visita ai New York Mets quando un gatto nero randagio invase il diamante dello Shea Stadium. L’animale corse attorno al capitano Ron Santo per poi bloccarsi di colpo davanti al dugout di Chicago, fissando con insistenza i giocatori. I Cubs persero malamente non solo quella partita, ma 17 delle successive 25 e tale implosione costò alla squadra l’accesso ai playoff che fino a quel giorno sembrava alla loro portata. Durante l’opening day del 1984 il management del team lasciò che Sam Sianis, nipote di William, facesse un giro dello stadio con Socrates, una capra diretta discendente di Murphy. Il gesto sembrò dare i suoi frutti, tanto che quell’anno la squadra centrò i playoff per la prima volta dal 1945. Ma era solo l’anticipazione di una beffa ancor più grande.
In vantaggio di 2-0 nella serie contro i San Diego Padres, un’innocua ground ball passò fra le gambe di Leon Durham in prima base, spalancando le porte all’ennesimo collasso della squadra. Due anni più tardi, Bill Buckner dei Boston Red Sox fu protagonista suo malgrado di un errore identico a quello di Durham. Peraltro Buckner e Durham erano stati compagni di squadra proprio a Chicago, prima che i Sox acquisissero il primo via trade nell’86. La circostanza che crea un sinistro parallelo con un’altra poderosa maledizione, The Curse of the Bambino. Quello di Sam e Socrates non fu certo l’unico atto propiziatorio portato avanti dal club e dai fan nell’arco di un secolo di miserie sportive.
Di queste se ne sono registrate di ogni tipo, dal sacro al profano. Spiccano la benedizione di Wringley Field da parte di un prete greco ortodosso (Sianis era di origine greca), un tentativo di contro-maledizione sui rivali degli Houston Astros e la decapitazione di una capra. Buoni auspici parevano provenire dal 2003, che il calendario cinese indicava come il guǐwèi yáng, ovvero l’anno della capra. Tuttavia, anche in questo caso la legge di Murphy si abbatté puntuale e implacabile sui chicagoani. Il 14 ottobre a Wringley Field i Cubs ospitavano i Florida Marlins per Gara 6 delle Championship Series, con Chicago avanti 3-2 nella serie. All’8° inning, i padroni di casa erano in totale controllo della partita sul 3-0.
La strada pareva spianata verso il primo pennant di National League e il primo viaggio alle World Series in quasi 60 anni. La foul ball del seconda base dei Marlins Luis Castillo si apprestava a cadere sul guantone dell’outfielder Moisés Alou quando accadde il fattaccio. Dalla sezione 4, fila 8, posto 113 Steve Bartman allungò la sua mano malandrina su quella stessa palla, di fatto scippandola ad Alou. Il gesto in sé non costò nulla in fatto di punti, ma capovolse completamente l’inerzia della partita. I Marlins misero a referto ben 8 punti nel resto dell’inning contro dei Cubs in pieno tilt, vincendo la partita e, un giorno più tardi, la serie. Bartman, impietosamente inquadrato dalle telecamere col suo cappellino blu, walkman e dolcevita verde, divenne il ricercato numero uno in città e il capro espiatorio (termine non casuale) delle sciagure stagionali della squadra. L’ultimo segno della maledizione è rintracciabile nel 2015, coi Cubbies di nuovo a giocarsi le NLCS. La squadra fu spazzata via senza appello 4-0 dai Mets e l’MVP di quella serie fu il giocatore di seconda base di nome Daniel… Murphy.
Dopo quest’ultimo colpo di coda, le energie residue dell’anatema erano ormai azzerate. Così nel 2016 Chicago ha messo insieme la miglior squadra possibile e ha chiuso la regular season con un record di 103-58, il loro totale di vittorie più alto dal 1910. Sfatato il tabù delle NCLS contro i Los Angeles Dodgers, si sono presentarono alle World Series per la prima volta da quel maledetto giorno del 1945. Dopo essersi spartiti le prime due partite di finale, i Cleveland Indians hanno espugnarono per due volte consecutive Wrigley Field, peraltro nel centennale da quando la struttura aveva iniziato a ospitare i Cubs. Poteva sembrare un’ulteriore beffa ad una serie infinita di danni, ma il merito della squadra è stato quello di non arrendersi alla superstizione e alla storia. Chicago ha rimontato fino al 3-3 e si è presentata per la decisiva Gara 7 in Ohio. La parità sul 6-6 dopo 9 inning ha portato la gara ai supplementari, quando all’inizio del 10° la pioggia ha cominciato ad abbattersi sulla città. La stessa pioggia che 72 anni prima aveva causato l’allontanamento di Sianis e della sua capra Murphy questa volta fu propizia nel lavare via i demoni del passato.
Ad assistere alla gara era presente anche il monarca assoluto del Buckeye State, sua maestà LeBron James. Portato allo stadio come amuleto (in realtà è tifoso Yankees), LeBron ha avuto suo malgrado l’effetto opposto. Per chi se lo fosse perso, il 2016 è stato l’anno delle rimonte dal 3-1. Una di queste fu portata a termine proprio dai Cavs di LeBron, che poi al suo annuale party in tema Halloween ha sfidato la sorte allestendo la decorazione di teschio che suonava una batteria sulla cui grancassa capeggiava “3-1 Lead.” Gli dei del baseball, non essendo familiari col #23 e forse senza consultarsi con quelli del basket – notoriamente sonnolenti in novembre – non hanno gradito. La cronaca racconta della vittoria dei Cubs per 8-7 e ciò ha portato d’ufficio agli Indians il primato poco invidiabile per il più lungo periodo corrente senza titoli MLB, ben 69 stagioni. Per celebrare il trionfo la famiglia Rickettsnon non ha badato a spese, commissionando per la squadra anelli in oro bianco 14 carati. Peraltro, uno di questi è stato regalato a Bartman, il loro fan più sfortunato che finalmente poté levarsi un enorme peso. Il tratto distintivo principale degli anelli non sono solo i 214 diamanti, i 46 zaffiri e i 33 rubini, che portano l’anello ad un valore stimato di $70k. No, quello che li rende unici si trova al suo interno, nella parte posteriore. Lì è riprodotta la sagoma della testa di una capra, dovuto omaggio alla fine del secolare Curse of the Billy Goat.
MVProf