Contratti, televisioni e procuratori ladroni (parte 2)
Tutto quello che c’è da sapere sui contratti collettivi fra lega e giocatori
Nella prima parte si è parlato principalmente di calcio e dei suoi pregi e difetti. Nel finale, si è accennato allo sport USA e di come le cifre che girano al suo interno facciano impallidire quelle della Serie A. Il successo delle leghe americane non è certo piovuto dal cielo. Va da sé che il fatto stesso che si possano promettere certe signore cifre dipenda da una ripartizione dei guadagni – televisivi in primis, ma senza sottovalutare l’impatto di un marketing capillare – anni luce avanti a quella del calcio moderno, ad eccezione della già citata Premier League britannica, che ci si avvicina sempre più di anno in anno. La chiave di volta che permette simili guadagni è la nozione di democrazia applicata allo sport, ovvero pari opportunità economiche per tutti di avere successo e merito individuale per raggiungerlo. Pensate alla Juventus dei cinque scudetti di fila, ai sette consecutivi del Lione o alla diarchia spagnola di Real Madrid e Barcellona. In America ciò non avviene. Tolta la preistoria del gioco, oggi non esiste una serie consecutiva di stagioni di alcuna lega professionistica in cui il vincitore sia già sostanzialmente deciso per manifesta superiorità prima ancora dell’inizio della stagione.
Per rendere efficace questa democrazia sportiva servono regole ad hoc. In primis, non esiste la retrocessione. Inoltre, di massima importanza è il concetto di spazio salariale tanto caro agli sport americani, che segue regole rigidissime e che molti, addetti ai lavori compresi, faticano a capire nella loro interezza. Le nozioni base sono salary cap e salary floor, ovvero tetto massimo e minimo del monte salari che ogni squadra è tenuta a rispettare. Questo in base ad un contratto collettivo che viene ciclicamente concordato fra lega, presidenti e associazione giocatori. La pena per chi sfonda il tetto massimo è la luxury tax, ovvero una tassa punitiva nei confronti di chi sgarra, che nei casi di recidività più grave può sfiorare uno spaventoso 500% per ogni dollaro speso in più del consentito. La pena per chi non raggiunge il minimo, invece, è il prelievo forzoso della differenza fra stipendi elargiti e suddetta somma minima, denaro poi da dividere a beneficio dell’intero roster. Tuttavia, queste regole non sono applicate in ogni lega allo stesso modo e per questo è necessario analizzarle una per una.
Andiamo a sbirciare nel registro contabile delle leghe USA che si apprestano a cominciare il campionato 2016-17. Partiamo con la NBA. Grazie al nuovo contratto mostre con le tv (TNT e ESPN pagheranno la cifra record di 24 miliardi di dollari per i prossimi 9 anni), il salary cap è balzato dai $70M dell’anno scorso agli attuali $94M, ed è destinato a sfondare il muro dei $100M nel 2017. Per dare un’ulteriore idea di questa impennata, il salary floor sarà $84M. In altre parole, bisogna spendere minimo $14M in più di quello che era il massimo consentito appena un anno fa. Questo spiega ampiamente il perché di certi contrattoni strappati da onesti mestieranti e nulla più durante l’ultima off season. I soldi andavano spesi per forza, nonostante certe oscillazioni vertiginose del valore dei singoli abbia portato molti a chiedersi quali effetti avrebbe portato un tale innalzamento degli stipendi. Ma ci arriveremo poi. In quanto al cap, per l’NBA si parla di soft cap, ovvero è possibile sfondare il tetto salariale pagando una multa alla lega determinata dall’ammontare della violazione stessa.
Passiamo alla NFL. Il suo salary cap è quello più ricco fra le leghe americane, con la cifra record di $155M, di $12M superiore all’anno passato. Trattasi quindi di un totale superiore a quello della NBA, ma con un trend in ascesa non altrettanto rapida. Nel football non esiste un concetto di salary floor vincolante tanto quanto lo è in NBA. Ogni team deve spendere sì l’89% del cap, ma entro una finestra temporale di diversi anni: essere sotto quella soglia per una singola stagione o due non comporta di per sé una violazione. Per di più in NFL vige un hard cap: la lega, nella persona del commissioner Roger Goodell, decide se ogni singolo contratto depositato violi o meno il tetto salariale, già di per sé assai alto anche perché deve racchiudere gli stipendi di roster da 53 giocatori. Per tale motivo non esiste una luxury tax. I diritti di riproduzione sono spartiti fra Fox, CBS e NBC, che con un contratto di nove anni porteranno nelle casse di lega e presidenti ben $27 miliardi, circa tre all’anno.
La cenerentola del gruppo rimane la NHL, con $73M di massimo e $54M di minimo salariale consentiti, in un incremento medio di soli $1,4M rispetto allo scorso anno. La lega è esclusiva del canale NBC, con cui ha firmato un accordo decennale nel 2011 per un totale di $2 miliardi totali. Detto in un altro modo, la NBC pagherà all’hockey in dieci anni totali appena il doppio di quanto pagherà il football per una singola stagione. Come per l’NFL, anche l’hockey non ammette la possibilità di sforare il massimo del tetto salariale.
Vi sono infine delle variazioni sul tema, rappresentate da MLB e MLS. Il baseball è regolamentato a livello finanziario all’opposto di football e hockey. Non c’è un cap fisso, ma vi è una cifra abbastanza volatile decisa periodicamente, al di sopra della quale viene imposta una luxury tax. La soglia massima è stata di $189M per la stagione appena trascorsa. Questo sistema, che pur dovrebbe scoraggiare i super team, in realtà li favorisce, poiché corazzate come Yankees, Red Sox e Dodgers potranno tranquillamente permettersi di pagare delle signore multe per assicurarsi i pezzi più pregiati del mercato. Nel periodo 2003-2015 i New York Yankees hanno pagato in penali la cifra mostruosa di $276M, ma in compenso si sono assicurati le prestazioni di Derek Jeter, A-Rod, Rivera, Clemens, Sabathia, Teixeira &Co. Finanziariamente, TNT e Fox pagano $800M all’anno per i diritti tv.
Il soccer americano che tanto si è evoluto nell’ultimo decennio, soprattutto grazie alla nazionale femminile, ha un cap di soli $3,49M annui. Tuttavia, ha istituito la regola del Designated Player per aggirare i regolamenti in vigore e così attirare nel proprio campionato star (spesso in declino) come Lampard, Gerrard, Pirlo e Henry. La regola è anche nota come Beckham Rule, poiché proprio David Beckham fu il primo giocatori di caratura mondiale ad approdare in MLS dai tempi di Lothar Matthaus. Ogni team ha fino a tre giocatori che possono essere selezionati come DP, col terzo slot da acquistare per $250mila, come una sorta di luxury tax. I giocatori che sono DP vanno a libro paga per $350mila, col resto dello stipendio milionario pagato sostanzialmente “in nero,” ovvero non incide sul cap. $90M all’anno è quanto ESPN, Fox e Univision pagano per i diritti.
In materia di cap, la Premier League ha adottato un proprio sistema basato sul modello americano, chiamato wage cap. Ogni team il cui monte salari superi i £67M potrà aumentarlo solo di £7M in ciascuno dei due anni successivi, mentre gli altri non avranno vincoli di sorta. La Serie A non possiede questo sistema, ma è stato fatto un tentativo con la Serie B. Il tetto riguarda però gli stipendi dei singoli giocatori, un po’ come avviene in MLS, e non l’intero team. €300mila è lo stipendio (lordo!) massimo per ogni giocatore, contro i $436mila della MLS. Il paragone non vale certo per il livello del campionato, ma per la già citata Designated Player Rule che rende comunque il campionato americano competitivo, mentre con salari così bassi è difficile che i club cadetti possano attirare grandi nomi.
Un tetto complessivo invece che individuale sarebbe più auspicabile, ma è anche vero che la situazione disastrosa dei club delle serie inferiori necessitava di una raddrizzata e questo esperimento può fungere da esempio sperimentale virtuoso per la Serie A. Questa, così come le squadre dei maggiori campionati europei, deve però già da qualche anno sottostare al Fair Play Finanziario, volto ad evitare conti in rosso in favore di un pareggio di bilancio, paletto che rappresenta lo standard minimo. La pena per chi sgarra, in teoria, è una multa e un blocco del mercato. Come già fatto intravedere dal Barcellona, però, le superpotenze hanno lo strano potere di appellarsi a questa inibizione e vincere puntualmente il ricorso. Il vero, grande primo passo del calcio italiano ed europeo sarà quindi quello di trattare tutti su un piano paritario di fronte alla legge, sia che ci si chiami Milan, sia che ci si chiami Virtus Entella.
Ecco una tabella riassuntiva fatta in casa:
Ma non è ancora ora per ergere gli americani al rango di semi-divinità. In primis, è chiaro che i numeri vanno contestualizzati in base ad un bacino d’utenza di molto maggiore. Inoltre, per meglio affrontare il tema della possibile bolla dei diritti tv degli sport USA questo nostro articolo approfondisce più nel dettaglio il paradosso creatosi. Per ora, basti sapere che l’ingente flusso di dollaroni non è necessariamente sinonimo di salute: indica un periodo di grande benessere e vacche grasse, ma pompare un palloncino più di quanto possa sopportarlo porta sempre e comunque ad un’esplosione. La Serie A e i principali campionati di calcio europei devono trovare una loro terra di mezzo entro cui operare, imitando il meglio del modello americano senza però perdere la propria identità in una dannosa imitazione. Farsi ammaliare dal momentaneo benessere del business sportivo americano può essere un enorme sbaglio, perché basta poco perché il virus si trasmetta anche da questo lato dell’Atlantico. Vi suona familiare con una certa crisi finanziaria di otto anni fa?
MVProf