Contratti, televisioni e procuratori ladroni (parte 1)
L’interessante quanto oscuro tema dei contratti televisivi nello sport
Il calcio italiano è malato e questo non è certo un segreto. Dei tanti problemi che affliggono il nostro calcio, quello della ripartizione bulgara dei soldi provenienti dalle televisioni è al cuore del problema. Se invece si vuole cercare un modello virtuoso, dobbiamo viaggiare oltremanica. Come riferito da calcioefinanza.it, la ripartizione dei diritti televisivi della Premier League è la più equa di tutte le maggiori leghe di calcio. E i numeri fatti registrare nella stagione appena trascorsa, quella 2015-16, i più paritari di sempre all’interno della già democratica Premier. La torta era composta complessivamente da più di un miliardo e mezzo di sterline (£1,638 miliardi, per l’esattezza). La successiva suddivisione segue tre diversi criteri e relative percentuali:
- Il 50% dei diritti nazionali e internazionali viene diviso equamente e assicura £51,399M ad ogni squadra, senza eccezioni. A questi vanno sommati i ricavi commerciali (Central Commercial), altro importo fisso di £4,509M.
- Il 25% successivo deriva dalle Facility Fees, somma che varia in base al numero di gare trasmesse in diretta.
- L’ultimo 25% viene attribuito dal Merit Payment, che assicura maggiori guadagni a seconda del piazzamento in campionato al termine della stagione in corso. La differenza fra una posizione e l’altra è di ben £1,24M.
La tabella qui sopra mostra che tra l’Arsenal (£100,95M) e il fanalino Aston Villa (£66,62M) ballano circa £34M, con un rapporto di 1,52 a 1. In Seria A questo rapporto diventa di 4,6 a 1, confrontando i ricavi top della Juventus (€103,1M) e quelli minimi di Carpi e Frosinone (€22M). Il totale dei diritti tv della Serie A ammonta a un miliardo e 169 milioni di euro. Peccato che, tolti il generoso paracadute elargito alle retrocesse e il losco quanto lauto pagamento ad Infront, advisor di cui si servono Lega e FIGC, la cifra scende a €924M. Dati alla mano, è possibile compiere un’analisi capillare della ripartizione del campionato italiano, che fa emergere gravi disuguaglianze fra Premier e Serie A, oltre che fra le squadre italiane stesse:
- Il 40% è rappresentato dalle parti uguali che ammontano a soli €18,5M, quasi un terzo dell’Equal Share britannico.
- Il bacino d’utenza, diviso fra ricerche sul tifo e popolazione del comune, porta il 30% del totale.
- Un altro 30% è tripartito in base alla storia del club, i risultati dei cinque anni prima e quelli dell’anno in corso.
- Come per la Premier, la Lega ridistribuisce in maniera paritaria una cifra extra proveniente dai contratti commerciali: si tratta di €23,6M, a seconda della posizione in classifica.
- Infine, un disavanzo di €69M viene distribuito in percentuale discendente dal primo al decimo posto, con un milione a testa per le restanti squadre, meno le retrocesse che avranno accesso al sopracitato paracadute.
Per riassumere, si potrebbe dire che i ricchi sono sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. Invece che premiare e aiutare a crescere chi come il Sassuolo sta diventando una bellissima realtà del calcio nostrano, si continuano ad elargire le somme più alte ai cosiddetti club storici della massima serie. Ciononostante, queste squadre – le due milanesi in testa – di recente hanno fatto registrare risultati a dir poco sconfortanti. Con un raffronto ulteriore fra squadre britanniche e italiane, mentre Juventus e Arsenal possono vantare ricavi assai similari , la battagliera Roma potrà contare su €72M, spese escluse, per tentare di ridare l’assalto a Juve e Napoli. Il Manchester City, pure lui ai preliminari, avrà invece ben £97M, ovvero €111M, per il proprio rilancio in campo nazionale e internazionale. Ampliando il paragone alle squadre di medio-bassa classifica, la situazione si fa ancor più preoccupante. L’Empoli ha incassato meno di €27M, mentre l’Everton, seconda squadra di Liverpool, ha portato a casa £83M, che al cambio attuale fanno €95,8M.
Le piccole squadre italiane sono proprio quelle che soffrono maggiormente questo squilibrio. Mentre le big possono contare su dirigenze assai abbienti, le squadre di caratura inferiore devono accontentarsi delle briciole e non troveranno mai il modo di competere con Juve e Roma per il titolo, anzi finiscono col vendere loro i pochi buoni giocatori in rosa per sbarcare il lunario. Il celeberrimo miracolo inglese del Leicester non nasce del tutto per caso. Certo, giocatori come Vardy e Mahrez hanno vissuto l’exploit della carriera, ma sono pur sempre foraggiati da Vichai Srivaddhanaprabha, presidente del club e nono uomo più ricco di Tailandia, secondo la rivista Forbes. Se le squadre italiane medio-piccole potessero aumentare i ricavi grazie a contratti televisivi più remunerativi, farebbero la loro comparsa nuovi investitori, italiani o stranieri che siano, e porterebbero un giro d’affari di cui tutto il calcio italiano beneficerebbe. Una nuova riforma è in cantiere, ma coi soliti Lotito-Galliani-Preziosi a fare della Lega il proprio parco giochi è d’obbligo avere un ottimismo assai cauto.
Ma i soldi delle tv non sono l’unico neo. Non va sottovalutato che in Italia i ricavi provenienti dalla vendita dei biglietti per lo stadio sono generalmente inferiori al 10%. Qui andrebbe aperta la corposa parentesi degli stadi di proprietà. Modello di virtù è il nuovissimo Juventus Stadium, il quale assicura circa 41 mila posti a sedere, assai meno dei 67 mila del vecchio Delle Alpi. Pur con un numero inferiore di posti, una nuova struttura assicura il tutto esaurito quasi ad ogni partita, senza contare nuovi e migliorate strutture quali bar, ristoranti e negozi. Un tentativo velleitario è stato fatto anche dal Milan, che aveva portato avanti un progetto per il suo stadio di proprietà, lo stadio al Portello. Avrebbe previsto 48 mila posti, assai meno degli 80 mila attuali di San Siro. Tuttavia, la media spettatori dell’ultimo anno rossonero viaggiava sui 37 mila fra paganti e abbonati. Questo racconta sì di un disamoramento progressivo dei tifosi nei confronti di una società allo sbando, ma anche di una struttura vecchia, di un’atmosfera sempre meno adatta alle famiglie poiché in mano agli ultras, e in generale di scarsi incentivi per il tifoso, poco o nulla coinvolto da quello che accade in campo. Al contrario, andare a palazzetto per una qualsiasi partita di NBA, anche fra le squadre più sgangherate, assicura spettacoli di cheerleader, lanci di t-shirt, promozioni allo store, lotterie e chi più ne ha più ne metta. E questo senza nemmeno entrare nel merito dell’intrattenimento offerto in campo.
Facile quindi capire come mai gli uomini più ricchi degli Emirati e dell’estremo oriente vogliano investire sul calcio di Sua Maestà, invece che su quello del Bel Paese. Nessuno vorrebbe investire i propri guadagni su un combattimento fra galli quando si ha la possibilità di scommettere su corse di auto fiammanti e averne ricavi pantagruelici. Se le leghe americane, vero e proprio apice di questo sistema di ripartizione democratica, seguissero il modello italico, mercati piccoli ma fondamentali come San Antonio e Oklahoma City sarebbero tagliati fuori da ogni logica di competizione, mentre Los Angeles e New York probabilmente ora avrebbero una trentina di titoli a testa. Nel football, il bostoniano di adozione Tom Brady avrebbe anelli del Super Bowl anche nelle dita dei piedi e i team di hockey a nord del confine canadese avrebbero il monopolio dell’intera lega americana. Invece, il principale beneficio di tanta democrazia sportiva è che, unendo in un calderone le cinque leghe sportive americane più famose (NBA, NFL, NHL, MLB, MLS), per il solo 2016-17 arriviamo a sfiorare la cifra da capogiro di $6,8 miliardi di incassi provenienti dai network televisivi. Neanche il deposito di Zio Paperone basterebbe a contenere un simile malloppo! Sarebbe tuttavia da ingenui fermarsi al concetto di ricavi senza esplorare l’intera struttura delle leghe a stelle e strisce, concentrandosi in particolare su esempi unici quali contratti collettivi e draft. Appuntamento al prossimo capitolo.
MVProf