Chi ha incastrato Carmelo Anthony?
Il viaggio di ‘Melo da superstar a indesiderato
È ormai da più di un mese che si sono perse le tracce di Carmelo Anthony. Il giocatore degli Houston Rockets è stato avvistato per l’ultima volta su un parquet NBA l’8 novembre, poi il nulla. Ma non aspettatevi di ricevere richieste di riscatto per lui. ‘Melo è semplicemente scivolato ai margini del mondo NBA, fino ad arrivare sull’orlo del baratro. Ma com’è potuto accadere tutto questo a uno dei giocatori più rappresentativi di questa era? Col suo allontanamento coatto dal Toyota Center, ‘Melo si è ritrovato sfrattato per la quarta volta nell’ultimo anno e mezzo. L’ultimo momento apicale della sua carriera risale ormai al 2013, quando porta i New York Knicks alla vittoria dell’Atlantic Division e poi alle semifinali di conference. Due anni più tardi arriva in città Kristaps Porzingis e così a ‘Melo non rimane più nemmeno l’etichetta simbolica di uomo-franchigia.
Cacciato con poche cerimonie dall’allora presidente Phil Jackson, la sua carriera si sposta sulla costa ovest per completare il terzetto con Russell Westbrook e Paul George. Per raccontare l’anno passato agli Oklahoma City Thunder, bastano due episodi. A settembre se la ride sotto i baffi (o meglio, sotto il cappuccio) all’idea di partire dalla panchina, poi ad aprile viene panchinato per esasperazione da coach Donovan dopo essere stato seviziato a ripetizione dal pick-and-roll degli Utah Jazz. Durante quella serie di playoff, con ‘Melo in campo i Thunder erano -58, con lui in panchina erano +32. OKC lo spedisce ad Atlanta, dove hanno appena il tempo di stampargli una jersey onoraria prima dell’inevitabile taglio. In seguito, ecco l’approdo in Texas, dove trova l’amico della Banana Boat Chris Paul, ma anche la vecchia conoscenza Mike D’Antoni, suo coach ai Knicks.
A differenza di un anno prima, la mossa genera da subito grossi dubbi. Prima di tutto, per via dei contemporanei addii di due califfi del 3-and-D come Trevor Ariza e Luc Mbah a Moute, più del guru difensivo Jeff Bzdelik. In cambio, arriva un convinto sostenitore dell’ormai obsoleto mid-range game, nonché un difensore disinteressato e pigro. ‘Melo, relegato fin da subito alla panchina per far posto in quintetto a James Ennis, dà il peggio di sé nel presunto revenge game a OKC: 2 punti con 1-su-11 al tiro e -22 di +/-. Che non fosse proprio un’unione scritta nella stelle era parso chiaro, ma nemmeno i più pessimisti potevano immaginare che ‘Melo non sarebbe durato nemmeno un mese. Dopo tre settimane, i Rockets sono 4-6, con tre sconfitte di 18+ punti. I Rockets decidono di allontanarlo e subito vincono 5 partite di fila. Negli USA, si dice addition by subtraction.
I problemi di Anthony non sono nuovi, ma solo nelle ultime stagioni vi sono stati puntati contro i riflettori. Nel 2003, gli scout NBA scrivevano: “Anthony at times can be such a dominant scorer that he can freeze teammates out of a game. (…) He needs to improve on his perimeter defense such as lateral quickness and footwork.” Tutto vero ora come allora. Finché il gioco e la freschezza gli permettevano di fare affidamento sui suoi letali isolamenti, ‘Melo era indubbiamente un All Star. Analytics e progressivo declino fisico lo hanno progressivamente isolato dal resto della lega. E così, mentre LeBron James domina ancora su tutti e Dwyane Wade raccoglie abbracci durante il farewell tour, ‘Melo se ne resta a casa sua. A differenza degli altri compagni di draft, lui è stato incapace di far evolvere il proprio gioco. Del resto, lo dice da sempre lui stesso: #STAYME7O. Anche troppo.
MVProf