Jackie Robinson
Ricordiamo Jackie Robinson, asso del baseball e ambasciatore per l’uguaglianza
Nell’ultimo anno sono stati pubblicati su queste pagine due articoli su Colin Kaepernick. In essi era analizzata la sua decisione di protestare contro le ingiustizie sociali e il contesto storico-culturale di cui fa lui e gli Stati Uniti. Il Kap-gate offre spunti di riflessione che trascendono il singolo uomo e il singolo evento. Partiamo dalle fondamenta. A monte di tutto esiste una domanda: quanto è umanamente vincolante per una celebrità farsi portavoce di tematiche sociali? Non parliamo di problematiche universali come la lotta alla fame nel mondo o all’analfabetismo. No, la domanda è più precisa. Razzismo, omosessualità, depressione sono solo alcuni dei temi che da sempre sono tabù. Il buon senso vorrebbe che chi può far giungere un proprio messaggio in milioni di case dovrebbe fare un passo in avanti. Semplice però capire perché in pochi lo hanno fatto. Essere famosi equivale spesso ad essere un brand e come ogni brand bisogna stare attenti a non alienarsi i propri clienti paganti. La storia dello sport fornisce il caso per eccellenza che fa giurisprudenza come nessuno. Molti associano Michael Jordan, la più grande icona del basket mondiale, alla controversa frase “Republicans buy sneakers, too.” In altre parole, MJ avrebbe dato la priorità a non farsi nemici in nome degli affari piuttosto che sfruttare la propria fama per parlare di questioni razziali controverse. Vera o meno che fosse l’aneddoto, il modo di agire di Jordan negli anni l’ha di fatto ratificata.
Già da ora dovrebbe essere chiaro quanto possa essere monumentale il conflitto che l’assumere o meno determinate posizioni genera. Non nascondiamoci dietro un dito: quasi tutte le buone cause richiedono una mano sul cuore e una sul portafoglio. Limitatamente a quella che è l’area di competenza di questo blog, tratteremo l’argomento da un punto di vista strettamente sportivo, compiendo un’analisi storica di cosa voglia dire essere un atleta e al tempo stesso un attivista per i diritti umani. Una precisazione andrebbe fatta fin da subito: sono qui considerati “attivisti” coloro i quali si sono distinti attraverso le proprie gesta sia dentro ad uno stadio sia – requisito ancor più importante – al di fuori di esso. Quindi, personaggi come Jesse Owens non rientrano nella casistica. Da atleta, dominò le Olimpiadi di Berlino del 1936. Contrariamente alla credenza popolare, Hitler non si alzò infuriato per il presunto fallimento della teoria della superiorità ariana. Al contrario, secondo alcuni ci fu addirittura un rapido quanto innaturale saluto di circostanza. Cercare nelle gesta di Owens una lettura politica e/o sociale è capzioso. Pensare che la Germania nazista fosse il male incarnato non è errato, ma pure gli Stati Uniti degli anni ’30 non erano rose e fiori per un uomo con la pelle scura. Come dichiarato da Owens nella sua autobiografia:
When I came back to my native country, after all the stories about Hitler, I couldn’t ride in the front of the bus, I had to go to the back door. I couldn’t live where I wanted. I wasn’t invited to shake hands with Hitler, but I wasn’t invited to the White House to shake hands with the President, either.
La premessa era d’obbligo per un motivo semplice. Quasi nessuno conosce il nome di Bud Fowler. Eppure, tecnicamente, fu lui il primo afroamericano a giocare nella lega professionista di baseball negli USA negli anni ’70 nel XIX secolo. Tuttavia è noto ai più che il primo atleta nero a rompere la barriera razziale fu Jackie Robinson. Proprio perché i meriti di quest’ultimo vanno oltre l’essere stato o meno il primo a fare qualcosa, il protagonista iniziale di questa serie di articoli è appunto Jackie Robinson. Nato e cresciuto nell’America degli anni ’20 – gli stessi anni di crisi vissuti da Owens – dimostrò sin da giovane di essere un portento in diverse discipline sportive all’ombra delle colline di Hollywood. Ma se aveste chiesto al giovane Jack il suo sogno, vi avrebbe risposto giocare running back per i Los Angeles Bulldogs, squadra professionista della Pacific Coast Professional Football League. La squadra non riuscì a rientrare nel progetto di espansione della NFL del 1937, ma la PCPFL fu la prima lega ad utilizzare giocatori afroamericani, barriera rotta dalla NFL solo nel 1946. Come illustrato da Owens, i problemi per i neri d’America erano da ricercare in patria ancor prima che oltreoceano. Chiamato alle armi nel 1941, Robinson finì presto davanti alla corte marziale per insubordinazione. Motivo del contendere, il suo rifiuto a sedere nel retro del mezzo militare che trasportava le truppe. La storia suona molto simile a quella di Rosa Parks, ma precedente ad essa di 14 anni. Oggi suona insensato, ma pensare che il diritto a scegliere i posti a sedere su un bus favorisse i prigionieri di guerra nazisti ancor prima che i soldati di colore dà l’idea di quanto potesse essere ostile il paese dello Zio Sam in quegli anni.
Se non altro, l’insubordinazione gli evitò la pioggia di bombe in Europa e gli permise di tornare allo sport a metà degli anni ’40. È allora che Robinson iniziò la sua carriera professionista di giocatore di baseball nella Negro League. Tale lega – o meglio, insieme di leghe – era riservata ai giocatori di colore e ai latinoamericani. Era stata formata negli anni successivi alla guerra di secessione per permettere ai non-bianchi di praticare lo sport a livello agonistico. Rispetto alla fine del secolo precedente, le regole del gioco erano cambiate. Le infauste leggi Jim Crow avevano portato un giro di vite, oltre che nella vita di tutti i giorni, anche in relazione alla presenza dei non-bianchi nel baseball. Queste erano infatti mirate a favorire la segregazione razziale a tutto tondo e rendere quello del già citato Fowler un caso irripetibile. Per questo motivo, le Negro League erano l’unica opzione per neri e ispanici di scendere in campo. Lo sbocciare di Robinson come atleta fu aiutato da una fortunosa quanto tempestiva circostanza. A quel tempo, le Negro League erano ben lontane dall’apogeo conosciuto negli anni ’20. Happy Chandler, il commissioner che nel 1944 prese in mano la MLB, si era subito espresso in maniera favorevole all’integrazione degli atleti neri. Robinson fu scelto fra un pool di altri giocatori neri come il più talentuoso. Nel 1945 firmò per 600 dollari mensili un contratto coi Montreal Royals, società satellite dei Brooklyn Dodgers. Fu così che, grazie a visionari come Chandler e Rickey, Jackie Robinson fece il suo debutto in divisa Dodgers il 15 aprile del 1947 sul diamante dell’Ebbets Field davanti a 23mila spettatori.
Egli continuò a giocare fino al 1956, allo scoccare del suo undicesimo anno da professionista. Anche grazie a lui, i Dodgers furono costantemente nell’élite della National League, riuscendo però a conquistare le World Series solo una volta, nel 1955, a fronte di numerose finali perse contro i rivali dell’altra sponda dell’East River, i New York Yankees. Nonostante gli allori in ambito sportivo, il suo ruolo va ben oltre l’ambito professionale. In primis, fenomenale fu il suo sangue freddo nel raccogliere insulti razzisti provenienti dagli spalti senza mai reagire. Non a caso, questa era una delle condizioni contrattuali imposte dal proprietario del team. Questo, insieme alle sue simpatie repubblicane, fu oggetto di critica da altri tipi di attivisti come Malcom X, che invece aveva opinioni discordi sul concetto di abbracciare la non-violenza. Ma se il colore della pelle procurò innumerevoli nemici in campo e fuori, questa sua attitudine gli permise di attirare il favore di alcuni giocatori bianchi. Emblematico fu il caso del compagno Pee Wee Reese, che lo abbracciò e disse, “You can hate a man for many reasons. Color is not one of them.”Il suo appoggio fu fondamentale per iniziare una discussione più organica che portasse altri giocatori bianchi dalla parte di Robinson. Ieri come oggi, una dura verità è che l’appoggio dei bianchi è essenziale alla riuscita di qualunque progetto di integrazione razziale. Il controverso striscione contro il razzismo appeso da tre giovani bianchi sul Green Monster di Fenway Park (stadio dei Boston Red Sox, squadra dalla parte sbagliata della storia in quanto a segregazione) proprio ieri ne è la riprova.
Il lavoro di attivista iniziò già nei suoi anni di atleta, essendo diventato editore di una rivista sportiva per soli neri, Our Sports. Sarebbe illogico ricercare in Robinson ulteriori e più marcate posizioni legate ai diritti civili durante la sua attività agonistica. Specie considerando che la sua mera presenza in campo già lo rendeva oggetto di insulti e innumerevoli minacce di morte. Dopo il ritiro avvenuto nel 1956, Robinson ebbe maggiore libertà d’azione e fu un ancor più grande paladino in materia di diritti sociali. Criticò tutte le strutture che nei suoi viaggi coi Dodgers lo avevano trattato con disprezzo per il colore della sua pelle, contribuì all’apertura della prima banca di proprietà afroamericana e sponsorizzò una compagnia di costruzione di case per famiglie a basso reddito. Per questo e tanto altro, il Time lo annoverò tra le “100 persone più importanti del XX secolo.” Nel 1962 fu introdotto nella Baseball Hall of Fame e nel 1984 gli fu assegnata, postuma, la medaglia presidenziale della libertà, il più grande riconoscimento per un civile in America. La motivazione espressa dall’allora presidente Reagan fu che la memoria di Robinson andava premiata per le sue conquiste dentro e fuori dal campo. La MLB gli dedicò il premio di Rookie of the Year, chiamato da allora “Jackie Robinson Award.” Dieci anni più tardi, la lega ritirò il suo numero 42 in ogni squadra della lega. Da allora, il 15 aprile si celebra il “Jackie Robinson Day.” In questo giorno si ricorda il debutto del giocatore del 1947 ed è l’unica data in cui i giocatori, gli allenatori e gli arbitri indossano tutti il numero 42. Alla luce di ciò, quando sentite dire che il grande merito di Jackie Robinson è stato l’essere il primo ad infrangere la barriera razziale nel baseball, voi obiettate che il nascere un asso del baseball per generosa elargizione di Madre Natura non richiede meriti particolari. Ma per diventare un modello in campo e fuori per milioni di persone è servito un solo e unico Jack Roosevelt, detto Jackie, Robinson.
MVProf