Apocalypse Now
Il fallimento della Nazionale Italiana è il fallimento dell’intero sistema (sportivo e non)
Apocalisse non doveva essere, non poteva essere. E invece è stata. Dopo 180 minuti fatti di un autogoal, un palo e poco altro contro una Svezia gagliarda, è svanito per la Nazionale italiana l’obiettivo di qualificarsi per i Mondiali di Russia 2018. “L’ipotesi di una mancata qualificazione ai Mondiali del 2018 sarebbe una apocalisse,” disse in tempi non sospetti il Presidente della FIGC Carlo Tavecchio per definire l’impatto che una mancata qualificazione avrebbe avuto sul movimento calcistico italiano. L’Apocalisse in senso biblico è un avvenimento con una forza dirompente tale da porre fine a tutto ciò che era e portare gli uomini davanti ad un giudizio insindacabile circa il proprio operato. Eppure dalla riunione in FIGC di mercoledì Tavecchio ne è uscito come ne era entrato, ovvero da presidente federale. Prima di lui a capo della FIGC c’era Giancarlo Abete e prima ancora Franco Carraro, tutti personaggi poco limpidi che sostanzialmente negli anni hanno portato avanti senza soluzione di continuità una stessa idea di calcio ormai antiquata e refrattaria al cambiamento. Come da tradizione, c’è sempre grossa difficoltà nel nostro Paese a farsi da parte di fronte ai propri fallimenti e l’immobilismo di Tavecchio non è diverso da quello del CT Giancarlo Ventura. “Senza l’Italia saranno brutti Mondiali, ma purtroppo è andata, che ci posso fare?” sono state le prime, imbarazzanti dichiarazioni del CT nel postpartita. Parole prive dell’umiltà necessaria a chi è stato il primo a mancare un traguardo che dal 1958 è stato il minimo sindacale per ogni CT azzurro e che la storia ricorderà con ludibrio. Come in un triste effetto domino, se Ventura si aggrappa a Tavecchio per non affondare, a sua volta quest’ultimo ha le spalle coperte dai poteri forti. Trattasi di Lotito, Agnelli, Preziosi e (una volta) Galliani, i veri burattinai dietro questo decadente status quo. Caduto Ventura, se e quando anche il 74enne pluri-pregiudicato Tavecchio verrà giudicato sacrificabile, qualcun altro ugualmente colluso prenderà il suo posto. Gattopardianamente parlando, qualcosa cambierà, ma nulla che scuota dalle fondamenta un sistema rigido e antiquato.
E i primi responsabili siamo tutti noi. La verità è che siamo talmente affezionati e ancorati alle notti passate a cantare a squarciagola po-po-po-po-po-po-po sotto il cielo di Berlino, che ci siamo illusi che le vacche grasse sarebbero durate per sempre. Non solo, la vittoria del Mondiale del 2006 ha contribuito a risolvere in un clima a tarallucci e vino Calciopoli, proprio come il Mundial dell’82 portò a chiudere un occhio sullo scandalo calcioscommesse del 1980. E noi tutti abbiamo chiuso l’altro. La Nazionale di Lippi del 2006 tirò giù la saracinesca rispetto alle chiacchiere esterne e per quasi un mese trovò giocatori in estasi calcistica. In quel mese tedesco, Cannavaro fu il più grande centrale della storia del calcio, Grosso un uomo in missione per conto di Dio, Pirlo un architetto rinascimentale e Materazzi l’antieroe di cui l’Italia nemmeno sapeva di aver bisogno. Simbolo, capitano e filo conduttore di tutte le spedizioni azzurre degli ultimi anni è Gigi Buffon, lui che poteva essere il primo di sempre a disputare 6 Mondiali. Dagli spareggi contro la Russia per Francia ’98 al Mondiale di Russia 20 anni dopo, la cabala sembrava aver cucito su misura una classica storia a lieto fine. E invece la sua avventura è mestamente finita con le sue lacrime in diretta nazionale dopo 5 Mondiali, 5 Europei e 175 presenze in azzurro. Dovendo tirare le somme, delle dieci grandi competizioni di cui Buffon è stato testimone, l’Italia è arrivata a superare i quarti di finale appena tre volte e solo il già citato Mondiale di Germania ci ha visto uscire vincitori. Questo evidenzia ancora di più come non è certo da ieri che il movimento calcistico italiano è ben al di sotto di quanto la percezione comune non porti a valutare.
La Nazionale del 2006 poteva contare su due certezze. Il primo era il blocco-Juventus, rappresentato da Buffon, Cannavaro, Del Piero, Camoranesi e Zambrotta. Il secondo quello del Milan, con Nesta, Gattuso, Pirlo, Inzaghi e Gilardino. I primi, a prescindere dagli oscuri intrallazzi della triade Moggi-Giraudo-Bettega, venivano da tre scudetti in quattro anni grazie a collettivi in cui 4 dei primi 5 giocatori per presenze erano italiani. La Juventus odierna, paradossalmente ancora più vincente, vede solo 3 italiani nei primi 10 in quanto a presenze in campo. Il cambiamento di scenario relativo al Milan è ancora più evidente. Il Campionato del Mondo del 2006 è arrivato fra la delusione cocente della finale persa a Istanbul nel 2005 e la rivincita di Atene nel 2007, senza contare tre piazzamenti consecutivi tra le prime due in Serie A. Ora il Milan sta attraversando un momento a dir poco problematico, col solo neo-rossonero Bonucci fra gli 11 contro la Svezia. C’è poi l’Inter, dominatrice di quattro campionati consecutivi dopo Germania 2006, ma che in questi ultimi anni ha contribuito alla causa della Nazionale unicamente con Materazzi e Balotelli. Per tutte le maggiori squadre italiane questo trend è esploso negli ultimi anni. Come testimoniato dai dati raccolti da Numeri Calcio, le prime cinque squadre della Serie A 2017-18 (Napoli, Juve, Inter, Lazio e Roma) hanno schierato un totale di appena 26 giocatori italiani e hanno ricavato la bellezza di 2.55 punti a partita. Al contrario, le cinque squadre peggiori (Spal, Sassuolo, Genoa, Verona e Benevento) hanno schierato un totale di ben 71 italiani per una misera media punti di 0.6.
Non ci sono scuse. Alcuni posso pensare che una rosa infoltita di stranieri sia funzionale per la vittoria di un campionato nazionale, eppure il Bayern Monaco che ha in rosa 12 giocatori tedeschi guarda tutti dall’alto in basso in Bundesliga e fornisce alla Germania, #1 del ranking FIFA, la spina dorsale della Nazionale. Altri possono credere che sia colpa degli stranieri che “rubano il posto” ai giocatori nostrani. Ma Brasile, Portogallo, Argentina e Belgio – le squadre che seguono la Germania nel ranking – hanno appena il 16% di giocatori nel giro delle rispettive nazionali che milita nel campionato del proprio paese. In più, tutte le loro stelle più luminose (Neymar – PSG, Ronaldo – Real Madrid, Messi – Barcellona e Hazard – Chelsea) vivono da protagonisti nei principali campionati europei. Al contrario, solo giocatori marginali come Darmian, Gabbiadini e Zaza giocano fuori dal Bel Paese. Insomma, l’arretratezza dei vertici federali (ricordate il caos per la spartizione dei diritti tv?), il laissez-faire dei tifosi, anni di politiche “anti-italiani” delle squadre di Serie A, uniti ad una generazione assai meno talentuosa rispetto al passato, hanno ora presentato il conto più salato immaginabile. E la Nazionale italiana è stata costretta a pagare.
Come ripartire allora? L’esempio migliore deriva dal Team GB, ovvero gli olimpionici della Gran Bretagna. Pur non storicamente noti per le proprie doti in ambito sportivo, i britannici hanno conosciuto un’escalation incredibile nelle ultime rassegne olimpiche. Nulla è nato per caso, ma grazie ad un mix di investimenti su atleti, infrastrutture e allenatori. Il tutto è nato con UK Sport, agenzia di sport figlia di una riforma che dagli anni ’90 destina agli sport e alle arti una quota dei soldi incassati dalla lotteria nazionale. Il disastroso singolo oro di Atlanta 1996 ha di fatto reso inevitabile l’istituzione di UK Sport e da allora il numero di allori olimpici britannici è salito in maniera esponenziale. I primi effetti si sono percepiti già con Sydney 2000 (11 medaglie d’oro e 28 medaglie totali) e Atene 2004 (9 ori e 30 totali). La vera impennata c’è stata a Pechino 2008 (19 ori e 47 totali), fino all’esplosione nell’edizione di casa a Londra 2012 (29 ori e 65 totali), medagliere poi sostanzialmente mantenuto a Rio 2016 (27 ori e 67 totali). Da questo paragone col Regno Unito non solo il mondo del calcio, ma l’intero panorama sportivo italiano ne esce con le ossa rotte. Perché in fondo il problema del calcio non è tanto diverso dallo stato di crisi che attraversano gli Azzurri di altre discipline come tennis, basket e soprattutto atletica. Trovatici con la possibilità di ospitare a Roma le Olimpiadi del 2024 e dare il via ad un progetto simile, ci siamo ritirati per paura di vincere, memori dei disastri di Italia ’90 e con la certezza che la corruzione l’avrebbe di nuovo fatta da padrona, indisturbata. Scelta giusta? Per lo stato attuale delle cose, probabilmente sì. Ma non poteva esserci modo migliore per ricordare a tutti che le sono le istituzioni per prime, sportive e non, a non credere nell’Italia. Da questo punto di vista, il goal di carambola di Johansson non è che un’altra nota stonata in una cacofonia decennale a cui avremmo già dovuto porre un freno da tempo. Ma che evidentemente a noi piace così.
MVProf