Addio, quella è l’uscita!

Gli addii dei grandi dello sport raramente hanno un lieto fine

Nel momento in cui il buon Mario Rossi lascia l’azienda per la quale ha speso una vita a lavorare, non sono previste grandi cerimonie. Un biglietto firmato con frasi di circostanza, forse qualche palloncino e un paio di pacche sulla spalla da una manciata di colleghi – magari qualcuno in più del previsto, se un’anima pia ha avuto l’accortezza di portare una torta gelato. Triste, direte voi, ma normale. Tuttavia, per quanto metodico e sempre puntuale, il Sig. Rossi non ha mai firmato autografi per strada, venduto magliette col suo nome sopra né tantomeno ha mai avuto decine di migliaia di persone a guardarlo compilare pratiche nel suo cubicolo.

Tutti questi ragionamenti però cambiano se il mestiere di Mario, invece che impiegato, è stella dello sport che ha intrattenuto ed emozionato intere generazioni di fan. In un mondo dello sport di generazione in generazione sempre meno romantico e che al contrario ha progressivamente sdoganato il cedere alla corte del miglior offerente – e non c’è nessun biasimo in questo – le bandiere sportive sono ormai merce rara. Eppure sono numerosi i casi in cui anche questi ultimi hanno abbandonato il palcoscenico in maniera davvero poco idilliaca, non ricevendo quell’ideale celebrazione sia come uomini sia come leggende sportive.

Un primo esempio proviene dall’agrodolce addio definitivo al parquet di Michael Jordan. Anche perché, a dire il vero, His Airness di addii a referto in carriera ne ha più di uno. Il suo primo ritiro dalla NBA arrivò nel 1993 subito dopo il terzo titolo consecutivo conquistato coi suoi Chicago Bulls. A quel punto, la stanchezza fisica e mentale accumulata (certamente esasperata dal tragico omicidio del padre) portò MJ a ritirarsi. Tornato un anno e mezzo più tardi, portò a termine un altro threepeat, ancora più dolce perché chiuso con uno dei tiri più clutch della storia del gioco contro gli Utah Jazz. I miliardi accumulati col suo brand Jordan non bastarono a tenerlo lontano dai campi e così tornò una terza volta nel 2001. Rispetto ai tempi d’oro, molto era cambiato: il numero era sempre il 23, ma le prestazioni erano altra cosa. Nei due anni ai Washington Wizards mantenne 121227085220-kobe-bryant-reaction-122712.1200x672.jpgmedie di punti inferiori persino al suo anno da rookie. Così, il terzo e definitivo ritiro fu ben più sottotono dei precedenti, stavolta arrivato senza anello e senza coriandoli.

Una storia simile riguarda anche Kobe Bryant, che ha finito per prolungare la carriera fin troppo e in tal modo rovinare un po’ l’alone di mito creato in precedenza. Da un punto di vista strettamente competitivo, la carriera del Black Mamba finisce nel 2013 con la rottura del tendine d’Achille, infortunio gravissimo che è spesso sinonimo di ritiro. Da un punto di vista salariale, Kobe tiene prigionieri i Los Angeles Lakers per altri due anni, fino ad arrancare letteralmente fino alla stagione 2015-16 – quella del “farewell tour.” Dopo un’annata passata a raccogliere tributi, standing ovation e memorabilia nei palazzetti di tutto il Paese, KB chiude la sua storia in giallo-viola con un clamoroso picco da 60 punti segnati in faccia ai Jazz (sempre loro dalla parte sbagliata della storia). I coriandoli finali sono un gesto dovuto, ma ben diversi da quelli che lo avevano portato a vincere 5 titoli NBA in 20 anni sempre e comunque in maglia Lakers. Al contrario, il suo ultimo anno è coinciso con una stagione da 17 vittorie e 65 sconfitte, il peggior record della storia della franchigia. *Mamba out* 

A sua volta leggendaria, ma in un altro sport e in un altro continente, è stata la carriera di Paolo Maldini. Lo storico difensore ha passato l’intera carriera nelle fila del Milan, collezionato 902 presenze coi Rossoneri e Immagine correlatadiventando una colonna della Nazionale Italiana. In totale, nei suoi 31 anni al Milan fra giovanili e prima squadra, Maldini ha alzato al cielo 30 trofei, la maggior parte dei quali con la prestigiosa fascia da capitano al braccio. A 41 anni decide di appendere gli scarpini al chiodo, ma il suo ultimo giorno in maglia rossonera non è dei più felici. Il Milan chiude il campionato 2008-09 al 3° posto e l’ultimo giro di campo del capitano viene condito da fischi del tutto ingenerosi da un parte della tifoseria, che non gli perdona il suo rapporto spesso conflittuale col tifo organizzato della Curva Sud. La contestazione non rovina certo una carriera stellare, ma resta una macchia in una giornata per lui tanto importante. Tuttavia, almeno Maldini ha avuto il lusso di poter essere lui stesso a dettare i termini del proprio addio, al contrario di altre due bandiere del calcio italiano.

Leggenda della Juventus grazie ad una permanenza a Torino ininterrotta fin dal lontano 1993, Alessandro Del Piero non è mai stato un giocatore come gli altri. Le sue giocate geniali e le immaginifiche parabole disegnate col pallone gli hanno regalato il soprannome di Pinturicchio dal Presidente Gianni Agnelli, il suo più grande estimatore. Per amore della Juve, ha deciso addirittura di passare dagli applausi del Bernabeu ai fischi degli stadi di Serie B di Rimini, Albinoleffe e Treviso. Dal 2011 però qualcosa si rompe fra lui e la nuova dirigenza juventina. In un video Del Piero afferma di essere pronto a firmare un contratto in bianco con la Vecchia Signora, di fatto mettendo all’angolo il presidente Agnelli – stavolta però Andrea, nipote di Gianni – che non gradisce un tale affronto da un suo dipendente. L’ultima di Pinturicchio in 39_panchina.jpgbianconero è allora appena un anno più tardi, alzando sì il sesto scudetto della carriera, ma dovendo poi emigrare lontano dall’Italia e chiudere mestamente la carriera nella lontana India.

In questa carrellata di ritiri eccellenti, non poteva mancare un altro numero 10 per antonomasia, ovvero Francesco Totti. Per lui che a sua volta ha dedicato ad un’unica squadra tutta la propria lunghissima carriera, il picco è stato senza dubbio lo scudetto del 2001. Per un “romano de’ Roma,” alzare il tricolore da capitano della Roma carica il trofeo di un valore colossale ed è paragonabile forse solo al primo titolo a Cleveland di LeBron James. Tuttavia, negli anni a seguire gli allenatori sulla panchina romanista passano gradualmente dal poter sfruttare la carta-Totti al dover gestire il peso-Totti. Anche l’anno del ritiro è condito da un ‘ultima polemica, con un’intervista estemporanea al TG1 in cui il giocatore domanda più rispetto e un maggior minutaggio. In tutta risposta, l’allenatore Luciano Spalletti lo mette fuori squadra, tentativo estremo per la società di tagliare finalmente il cordone ombelicale con un pupone di 40 anni. Una decisione controversa che non solo aliena l’allenatore agli occhi dei tifosi, ma deteriora pure il rapporto fra i due e a fine anno entrambi danno l’addio a Roma fra le polemiche.

La dura lezione è che l’essere bandiera dà sì determinati privilegi, ma fa spesso dimenticare ad essi che nessun atleta è e sarà mai più grande del proprio club. Per fortuna dei romantici, esistono (pochi) casi positivi rispetto a questa sorta di maledizione che colpisce le leggende. Dopo 18 anni in NFL e non poche delusioni patite in postseason, Peyton Manning ha salutato il football e i suoi Denver Broncos conducendo la squadra alla conquista del Super Bowl 50. Alzando dal palco del Levi’s Stadium il suo secondo Lombardi Trophy, deve aver pensato che non potesse esserci ultimo “Omaha” migliore sul suo leggendario curriculum.

Rispetto agli sport di squadra, quelli individuali sembrano dare agli atleti più forti qualche chance in più di dettare le regole del proprio addio a testa alta. Nella boxe, Floyd Mayweather si era ritirato una prima volta col record di 49-0, salvo poi tornare per un ultimo match contro Conor McGregor. Grazie alla sua vittoria per TKO, ha sorpassato il record di imbattibilità di Rocky Marciano e portato a casa un mega assegno da più di $200M. Infine, dolci sono stati gli addii olimpici di Michael Phelps e Usain Bolt, con entrambi a fare incetta di medaglie d’oro per concludere una carriera stellare.

MVProf

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