3-1: un anno dopo
Gara 5 si preannuncia di nuovo decisiva nelle sorti delle Finals
The Warriors blew a 3-1 lead. Questa è stata a mani basse la battuta – o presa in giro, a seconda della fede sportiva – più gettonata del panorama sportivo americano dell’ultimo anno. A sprecare un vantaggio così largo sono stati, solo nella stagione scorsa, i Cleveland Indians alle World Series, gli Oklahoma City Thunder in finale ad ovest e, appunto, i Golden State Warriors alle Finals. Un anno dopo in finale NBA ci sono di nuovo i Warriors a dar battaglia ai Cleveland Cavaliers, nel terzo atto della più grande rivalità sportiva della seconda metà di questo decennio. Rispetto a un anno fa vediamo ora cosa c’è di diverso e cosa è rimasto lo stesso.
COSA È CAMBIATO
Green c’è – Una differenza non da poco. Secondo una buona parte di opinionisti, l’assenza di Draymond Green in Gara 5 nel 2016 ha girato le sorti della serie, dando meno alternative offensive e soprattutto difensive ai Dubs. Da quella decisiva gara è girata l’intera serie, con l’inerzia di nuovo in mano ai Cavs. Lo stesso giocatore si è detto convinto che la sconfitta dello scorso anno non sarebbe avvenuta senza la sua squalifica. Quest’anno Green sta vivendo una serie finale meno esaltante, ma pur sempre all’interno di playoff in cui viaggia a 13 punti, 9 rimbalzi e 7 assist a partita. La notizia migliore per coach Kerr, però, è che MoneyGreen lunedì sera sarà regolarmente in campo, salvo imprevisti inimmaginabili. Prima delle Finals l’ala aveva dichiarato che non si sarebbe fatto fregare due volte, ma i battibecchi con avversari e pubblico dimostrano che la maturazione è ancora in fase embrionale. Ma dopotutto questo è Green, prendere o lasciare.
…e KD pure – Sarà forse ridondante, ma la squadra che lo scorso anno ha vinto 73 partite ed è finita ad un tiro dal ripetersi campione ha scaricato un Harrison Barnes finito anzitempo in ghiacciaia e lo ha sostituito con Kevin Durant. Questa circostanza da sola fa tutta la differenza del mondo, specie se si torna alla memoria in quella decisiva Gara 7, in cui i Warriors sono rimasti senza canestri dal campo per gli ultimi e decisivi 4’40”. KD sta portando avanti la sua nomination ad MVP delle Finals con prepotenza, essendo passato dai 27-8r-4a dei playoff ai 34-9r-6a. La sua tripla in faccia a LBJ, azione emblematica di Gara 3 e, fin qui, delle intere finali, rappresenta quello che l’anno scorso è mancato, ovvero un realizzatore naturale. Vero, lo Steph Curry acciaccato di allora è tutt’altra cosa rispetto ad oggi, avendo egli alzato i giri a quasi una tripla doppia di media. Il due volte MVP necessita forse nel suo curriculum di una giocata decisiva per il titolo e non è escluso che avverrà. In caso contrario e quando il ferro si farà più piccolo per gli altri, non c’è dubbio che Durant sarà la chiave per trovare il fondo della retina.
La cabala – C’è 3-1 e 3-1. Quello attuale è maturato con progressione diversa (1-0, 2-0, 3-0, 3-1) rispetto allo scorso anno (1-0, 2-0, 2-1, 3-1). Finire sotto 3-0 ha un sapore diverso, per i numeri. Mai nessuna squadra è mai riuscita a recuperare una serie di playoff alle 7 partite dopo essere finita in quel baratro. È accaduto per 126 volte e il record è impietoso: 0-126. Nello specifico, solo tre volte si è arrivati a prolungare la serie fino a Gara 7, culminata però sempre con una sconfitta per il team che aveva tentato la rimonta. Di queste tre, solo una volta si trattava delle Finals e per ritrovare traccia di questo Gronchi rosa bisogna ritornare al 1951 e ai defunti Rochester Royals. Ampliando la ricerca alla serie finale degli altri maggiori sport professionistici americani, in NHL la prima e unica rimonta da 3-0 risale addirittura al 1942 ad opera dei Toronto Maple Leafs. In MLB non è mai accaduto alle World Series, ma ai playoff la rimonta più recente da 3-0 risale al 2004 ed è passata alla storia perché operata dai Boston Red Sox nell’anno in cui finalmente sfatarono The Curse of the Bambino.
COSA NON È CAMBIATO
Record – Sempre di record si parla, allora come oggi. O almeno si parlava – prima che venissero infranti. Nel 2016 i Warriors avevano rincorso e ottenuto il miglior record di sempre in NBA (73-9), superando quello precedentemente in mano per un ventennio ai Chicago Bulls del ’95-’96 (72-10). Per settimane si è parlato se fossero più forti questi Dubs o quei Bulls, circostanza che forse nemmeno alla Playstation verrebbe chiarita più di tanto, figuriamoci al bar fra tifosi nostalgici e rancorosi. Il dubbio venne presto sciolto dai Cavs, che battendo quei Warriors in 7 gare hanno sostanzialmente fatto fare a Golden State la figura di Peyton Manning (ovvero grandi numeri in stagione regolare, ma braccino quando c’è da vincere ai playoff) e, peggio ancora, evitato il loro repeat. Quest’anno i Cavs hanno di nuovo fatto già almeno un piccolo sgambetto agli avversari, impedendo loro di finire la postseason con un perfetto record di 16-0. A Cleveland pare abbiano preso gusto a fare da guastafeste…
Il dinamico duo – Benché a casa Cavs si parli di Big 3, è evidente ai più che Kevin Love goda di una fama e di un rispetto assai minore di LeBron James e Kyrie Irving. Lo scorso anno i due sono stati la prima coppia di sempre a segnare almeno 40 punti a testa in una partita delle finali e già quest’anno hanno flirtato con lo stesso record, con 77 punti in due in una Gara 3 sfuggita per un nonnulla. Non per niente LBJ ha cifre in linea con lo scorso anno, se non addirittura di poco superiori. Golden State ha il lusso di poter alternare uomini e rotazioni sempre diverse ai due fenomeni di Cleveland, ma molto spesso un tiro sul ferro è frutto di un errore personale più che di una difesa efficace. Se LBJ da solo dovesse fare il supereroe e accumulare di nuovo cifre simili agli 82 punti segnati fra Gara 5 e 6, e in ciò Kyrie si dimostrasse un perfetto Robin, non resterebbe molto altro da fare a Golden State che sudare freddo e vedere i fantasmi di un passato tutt’altro che remoto.
Orgoglio Cavs – Vero, in 126 hanno tentato e tutte hanno fallito, ma in materia di missioni impossibili i Cavs sono praticamente degli esperti. Lo scorso anno la rimonta di Cleveland da uno svantaggio di 3-1 era stata la prima volta di un tale recupero alle Finals. Pur su un campione statistico inferiore, 32 team su 32 prima di loro ne erano usciti perdenti. Un anno fa per fare la storia è stata di importanza capitale vincere Gara 5 e quest’anno sarà lo stesso discorso. LeBron sapeva che sbancare la Oracle Arena alla quinta partita avrebbe voluto dire avere i propri tifosi a spingerli alla sesta e il totale dominio psicologico a farli prevalere alla settima. L’orgoglio dei Cavs ha ricacciato i tappi nella bottiglie di champagne che Green & Co. erano pronti a stappare, addirittura usandole come motivazione ulteriore per non venire sweeppati. Questi Cavs hanno già fatto un’impresa titanica un anno fa e ora la strada appare familiare: se è vero che i Warriors del 2017 non sono la stessa squadra di un anno fa, i Cavs lo sono eccome e hanno già una cartina stradale mentale di come ritornare alla meta.
In conclusione, la strada sembra ben avviata per i Warriors. Aver difeso la Oracle nelle prime due partite e aver prodotto uno split alla Q era parte integrante dei piani di battaglia pre-Finals. Averli portati avanti dovrebbe dare fiducia, non, come suggerirebbe certa stampa, portare ansie immotivate. Non solo questi Warriors sono di molto più forti di un anno fa, ma come se non bastasse hanno una bruciatura bella grossa a ricordargli i rischi di giocare col fuoco. “Non c’è nessuno pressione aggiuntiva,” ripete Green col sottofondo di Curry e coach Kerr a fare da eco. Eppure, con LeBron come avversario, l’esperienza può trasformarsi in incubo molto presto: starà a Durant e soci chiudere i conti lunedì e alzare in aria il Larry O’Brien Trophy davanti ai propri tifosi della Baia. Dare ulteriore vita a questi Cavs equivarrebbe ad assaporare sfottò come the Warriors blew a 3-0 lead prima di quanto non immaginino!
MVProf