La pelle del male
I Redskins non sono nuovi a polemiche sociali (e non solo riguardo a Kap)
“Isn’t it obvious what’s happening?” Così Mark Geragos, avvocato di Colin Kaepernick nella sua causa contro l’NFL per collusione, ha commentato al Washington Post gli ultimi sviluppi a proposito del suo assistito. Il catalogo di scuse per non firmare Kaepernick è piuttosto variegato, e va dai dubbi sul suo stato di forma alle distrazioni portate con sé. Un pretesto a cui però nessuno dei Washington Redskins può più aggrapparsi è la cosiddetta ruggine da campo. Dall’infortunio occorso ad Alex Smith in Week 11, la franchigia della capitale ha utilizzato e/o firmato tre quarterback differenti. Tuttavia, se pur è vero che Kap non gioca in NFL da gennaio 2017, nessuno dei QB preferitigli dai Redskins ha esperienze di campo più recenti né tantomeno un curriculum comparabile. Invece di firmare Kaepernick, la squadra ha infatti scelto di virare verso altri lidi. In primis rivolgendosi a Colt McCoy, il quale, prima del finale della partita contro Houston, non aveva effettuato un lancio in regular season da gennaio 2016. Con McCoy a sua volta KO, questi hanno firmato Mark Sanchez. L’uomo passato alla storia per il buttfumble è quindi diventato subito titolare, cosa che non gli capitava da novembre 2015. A fare da suo nuovo backup sarà Josh Johnson, il cui ultimo avvistamento su un campo NFL risale addirittura a dicembre 2011.
Pur essendo 6-6 a una sola partita di distanza dal primo posto in NFC East, la scelta dei Redskins di preferire dei QB a dir poco modesti invece che tentare il tutto per tutto con Kap testimonia ancor di più come l’accanimento nei suoi confronti abbia radici ben più profonde di quelle relative alla volontà di vincere a football. Coach Jay Gruden ha provato a gettare acqua sul fuoco, riferendo alla stampa che il nome di Kaepernick era sì emerso durante un confronto col management, ma si era scelto di soprassedere, adducendo mere ragioni di familiarità con schemi e stile di gioco. Tuttavia, questa è solo una scusa poco fantasiosa. Basta guardare i Baltimore Ravens, imbattuti nelle ultime tre partite da quando il timone è passato da Joe Flacco (veterano dal braccio potente, ma poco mobile) a Lamar Jackson (rookie immaturo come passatore, ma ottimo corridore). Peraltro, Flacco è solo uno di una lunga lista di QB che nelle ultime due stagioni hanno patito infortuni più o meno gravi, ma che Kap non ha avuto la chance di sostituire. Mentre Rodgers, Watson, Luck, Wentz, Bradford, Palmer, Dalton, Tannehill, Garoppolo e Mariota finivano KO, Peterman, Savage, Kessler, Cutler, Barkley, Osweiler, Webb, McGloin, Weeden e Glennon trovavano lavoro prima di Kap.
In realtà, se c’è una squadra che necessita drammaticamente di public relations positive quelli sono di sicuro i Redskins. Il nome stesso della franchigia è da diverso tempo al centro di accesi dibattiti. Fin dagli anni ’60, infatti, si è discusso se sia legittimo o meno utilizzare un termine che alcuni nativi americani considerano offensivo e razzista. Negli Stati Uniti esistono svariate franchigie anche solo fra i professionisti che utilizzano nomi con riferimenti a gruppi etnici. Tuttavia, se ad esempio Yankees, Vikings o Fighting Irish sono stati termini scelti con orgoglio da rappresentati di questi stessi gruppi, Chiefs, Warriors e Blackhawks sono invece stati imposti dai proprietari bianchi dei team. Seppure ciò sia stato fatto spesso come omaggio, nessuno ha pensato di chiedere ai nativi americani un loro parere a riguardo. Negli ultimi tempi una maggiore sensibilità ha portato a cambiamenti in questo campo. Per esempio, i Cleveland Indians hanno scelto di rimuovere Chief Wahoo, caricatura razzista di un nativo americano, dai loro loghi.
Sebbene Washington non sia l’unica squadra a utilizzare un nome dal retaggio indigeno, il proprietario del team Dan Snyder si è sempre detto assolutamente contrario a qualsiasi concessione in materia. Non che da Snyder ci si potesse aspettare una visione progressista in fatto di diritti civili. Questi infatti è fra i proprietari NFL che hanno contribuito con ben $1M all’inaugurazione del Presidente USA Donald Trump e negato categoricamente ai propri giocatori la libertà di poter stare in ginocchio durante l’inno. Ultimo abbaglio in ordine di tempo è stata la decisione di prendere a bordo Reuben Foster, tagliato dai 49ers dopo la terza accusa in un anno per violenza domestica. Se le altre 31 franchigie lo consideravano un elemento radioattivo da tenere a distanza, Washington ha invece pensato bene di accoglierlo in squadra. Di fatto, il management ha dato un messaggio chiaro: siamo pronti a dare una seconda (o forse siamo già alla sesta?) possibilità a un uomo accusato di crimini odiosi, ma per un paladino dei diritti civili come Kap abbiamo proprio le mani legate.
MVProf